Appunti di un Medico volontario

Appunti di un Medico volontario: Indice


La telefonata

Ada Maria VetereLa telefonata arriva la sera, attesa ma inaspettata e pesante come un macigno, mentre me ne sto rilassata sul divano a guardare la TV con mio marito.

Avevo risposto prontamente all’appello della Protezione Civile che cercava 300 medici volontari per aiutare le regioni del nord, ma quasi 8.000 medici avevano risposto e le probabilità che chiamassero proprio me erano infinitesimali.

Si, è vero, c’erano stati altri contatti per email e anche per telefono, ma solo per avere conferma della disponibilità fornita sul modulo on-line; niente di concreto, tutto un po’ fumoso.

Del resto da quando è iniziata la pandemia la stessa vita di ogni giorno è diventata un po’ fumosa, come finta, rarefatta: sembra di guardare un film già visto.

E in questa atmosfera onirica, convivono pacificamente tutte le contraddizioni che mi porto dentro: la paura e la voglia di partire, il desiderio di restare con i miei cari e il bisogno di dimostrare a me stessa che so ancora fare il Medico (notate la maiuscola!).

Già, il punto è proprio questo: noi Medici di Famiglia siamo stati lasciati soli, dimenticati dalla macchina dell’emergenza, senza dispositivi protettivi, senza poter visitare i nostri pazienti, con gli studi svuotati.

Non so se qualcuno si ricorda la Preside Trinciabue del film “Matilda 6 mitica” che sognava le “scuole senza gli studenti”… beh, con noi ci sono riusciti: gli studi medici senza pazienti.

Rispondo al telefono: “Dottoressa allora l’appuntamento è per domani alle 17 all’Hotel…” ed il peso della telefonata mi riporta immediatamente con i piedi per terra.

All’improvviso tutto diventa “vero” ed imminente: meno di 24 ore per fare la valigia, meno di 24 ore per affrontare ancora non so bene cosa.

 

01 aprile 2020 – Il raduno

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Il pomeriggio di una splendida giornata di sole, accompagnata in macchina da mio marito, attraverso Roma semi-deserta.

Semi perché qui ancora il senso di pericolo legato al Coronavirus in realtà non si avverte.

Si, certamente il traffico è quasi inesistente, però si vedono persone in giro: chi fa jogging, chi porta a spasso il cane, chi va in macchina. Sembra un agosto dei primi anni ’70.

I 13 Km che separano casa dall’ Hotel Universo, vicino alla Stazione Termini, se ne scorrono in meno di 10 minuti: due mesi fa ci sarebbe voluta almeno un’ora.

Mi assegnano una stanza, un bacio mascherina contro mascherina a mio marito e sono sola. Beh, almeno l’albergo è molto bello.

Alle 17.30 scendiamo nella sala riunioni per fare il tampone.

Per chi avesse già fatto un “tampone faringeo con antibiogramma per Streptococco ecc. ecc.” in un qualsiasi laboratorio di analisi e pensa che il tampone per Coronavirus sia la stessa cosa, una notizia: è tutta un’altra cosa!

I tamponi in realtà sono due: uno nasale che ti infilano praticamente fino al cervello e uno faringeo talmente profondo che riuscire a non vomitare è stata un’impresa.

Alle 20:00 di nuovo tutti in sala riunioni per il briefing con Borrelli, siamo tanti ma seduti correttamente a distanza di sicurezza, maggioranza maschile, molti giovani.

Sembra di guardare l’ormai consueta relazione serale della Protezione Civile al TG, ma oggi siamo lì di persona e Borrelli ci spiega che domattina ci porteranno all’ Aeroporto Militare di Pratica di Mare dove quelli di noi destinati in Lombardia e Trentino partiranno per Bergamo e poi da lì saranno smistati per le varie destinazioni in pullman.

La mia destinazione è Arco, in Trentino vicino a Riva del Garda sul lato nord del lago: un posto meraviglioso per una vacanza rilassante, ma dubito che me lo potrò godere…

 

 02 aprile 2020 – La partenza

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Alle 9.20 arriva la risposta del tampone: NEGATIVA e quindi “abile e arruolata”.

Partiamo su un pullman militare con 40 minuti di ritardo perché non erano ancora arrivati tutti i tamponi e riattraverso di nuovo una Roma deserta, sfavillante, senza traffico: un giro “turistico” inaspettato che mi fa godere le meraviglie della città più bella del mondo dove vivo, che nel tran-tran di tutti i giorni non si possono apprezzare (la pandemia è anche questo).

Alle 11.00 siamo a Pratica di Mare e, dopo 5 appelli (ogni tanto ci perdiamo un collega), finalmente ci imbarchiamo su un aereo della Guardia di Finanza nuovo di zecca.


Aereo militare si sale a bordo


Alle 11.30 atterriamo ad Orio al Serio in uno scenario di vera guerra: tutti gli aerei allineati a terra, in giro soltanto automezzi militari e soldati.

Ci accolgono in pompa magna Vice-Ministro della Salute, Assessore alla Sanità della Lombardia ed il Sindaco di Bergamo: tante sono le parole di rito, ma le lacrime che il Sindaco non riesce a trattenere e che non lo fanno praticamente parlare, quelle no, non sono di rito.

E mi fanno capire che qui non è Roma: qui l’epidemia ha colpito duramente e non c’è uno che non abbia avuto almeno un lutto in famiglia.

Ci smistano in base alle destinazioni e con altri 6 colleghi salgo su un pulmino alla volta di Trento.

Accoglienza alla PA di TrentoAlle 14.00, dopo 2 ore di autostrada percorsa solamente da automezzi pesanti, arriviamo a Trento, nella sede della Provincia Autonoma, accolti calorosamente dal Presidente della Provincia, da assessori, giornalisti e TV locali.

Peccato per il pranzo: panino al prosciutto e bottiglietta d’acqua… ma siamo in guerra, no?

Alle 15.00 finalmente arriviamo ad Arco, cittadina meravigliosa sulla punta nord del Lago di Garda, ma oggi altra “città fantasma”: nessuno in giro, aperti dolo due supermercati ed una farmacia.

Sono con altri due colleghi, una collega ed io siamo state assegnate alle Residenze Sanitarie Assistite (RSA) di zona, ultimi drammatici focolai di infezione, l’altro collega andrà all’ospedale locale.

Mi sistemo in una Guest House molto bella: quando sarà tutto finito ci torno da turista!! Anzi, adesso ci metto un link senno’ mi scordo: Da Gianni !!

La sera mi contatta il referente sanitario, che cerca di spiegarmi brevemente la tragica situazione delle RSA della zona, dove negli ultimi giorni i decessi per COVID sono stati talmente numerosi da aver dovuto mettere le salme in sacchi neri per assenza di bare; domani faremo il giro esplorativo di queste strutture.

Mi chiede: “vi sapete vestire?” intendendo ovviamente l’indossare i famigerati DIP (Dispositivi Individuali di Protezione) e io rispondo di no: ho lavorato anche in reparti d’emergenza, ma mai in corso di epidemia infettiva.

Mi fa: “allora guardati i video della Protezione Civile su YouTube perché non è semplice…

Bene, adesso so anche cosa fare stasera.

 

03 aprile 2020 – La ricognizione

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Alle 8.30 siamo operativi. Oggi, come previsto, ricognizione delle 4 strutture sanitarie di zona per verificarne la situazione e valutarne i bisogni.

Belle ville residenziali per pazienti non autosufficienti, trasformate dalla bufera virale in reparti ospedalieri di trincea, quasi di rianimazione e biocontenimento, grazie all’impegno ed allo splendido lavoro fatto in tempi brevissimi e nonostante le enormi limitazioni e la penuria di mezzi necessari, dal personale che si è speso in tutti i modi per arginare la spaventosa perdita di pazienti (dal 20 al 50%).

La collega ed io andremo da domani a supportare lo staff medico dell’ RSA di Arco, che ospitava 150 persone, di cui 26 sono venute a mancare negli ultimi 10 giorni per COVID e che attualmente viene considerata un vero “ospedale covid”.

Siamo un po’ perplesse: era questo che avevamo immaginato di venire a fare? Assistenti in geriatria? Sicuramente no, e concordiamo di chiedere la riassegnazione se domani vedremo che il nostro supporto non è così necessario come pensavamo.

 

04 aprile 2020 – L’assegnazione

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Si inizia alle 8.30, passa un’ora abbondante per l’assegnazione della divisa, degli armadietti, dei badges e, soprattutto, per la vestizione: camicione in TNT con allacciature complicatine, doppia mascherina facciale (FFP2 interna e chirurgica esterna), maschera per occhi, triplo strato di guanti, copriscarpe, cuffia.

Per chi non lo sapesse, una volta indossata questa armatura, non è più possibile andare in bagno: sia perché ci vuole un’ora per spogliarsi e rivestirsi, sia perché non si possono sprecare i preziosi DIP.

Io l’ho scoperto ieri sera, parlando col nostro coordinatore che, dopo avermi salutato, aggiunge: “…ah: ricordati di non bere da almeno un’ora prima di vestirti che non si può fare pipì…“.

Di bene in meglio: io ce la posso fare, ma non oso pensare ai colleghi maschietti con l’ipertrofia prostatica!

In 4 ore visitiamo circa 130 pazienti, ben suddivisi nei tre piani della struttura a seconda della contagiosità e della gravità dello stato, in modo da creare percorsi “puliti” e percorsi “sporchi”, lavoro massacrante ed encomiabile fatto da tutto il personale dopo i primi giorni di epidemia massiccia, che ha trasformato la struttura residenziale in un vero e proprio ospedale covid pur senza le dotazioni di un ospedale vero e proprio.

I pazienti sono in gran parte anziani (età media 85 anni, ma ci sono anche soggetti di meno di 40 anni con SLA, tetraparesi, tracheostomizzati, fino alla vecchina di 100 anni suonati), quasi tutti positivi, circa una trentina critici, altrettanti che stanno benino, pochi che clinicamente non danno preoccupazioni.

Regna sovrana la depressione delle persone, per la maggior parte con deterioramento cognitivo grave, soprattutto per il drammatico cambio delle loro abitudini: spostamenti di stanza, personale non riconoscibile per la “bardatura” da biocontenimento, segregazione nelle stanze per evitare al massimo la diffusione virale.

Nonostante tutto, è veramente notevole la capacità di V., il collega responsabile di reparto, di ascoltare e possibilmente consolare queste persone pur non perdendo mai di vista le esigenze cliniche dei singoli pazienti, che conosce a menadito in modo sorprendente.

E’ un collega quarantenne moldavo stabilito in Trentino credo da parecchio, con moglie e due figli, che ha esperienza e capacità notevoli in medicina d’urgenza, in geriatria, ma soprattutto ha una incredibile empatia con i pazienti, di cui ricorda tutto a memoria.

Si è veramente speso senza limiti per quest’epidemia, senza tornare a casa per una settimana intera.

I tempi tecnici della visita pazienti si dilatano inevitabilmente.

Dopo ogni paziente ognuno di noi deve cambiare il paio di guanti più superficiale, disinfettare per frizione alcolica il paio di guanti sottostante, indossarne un nuovo paio e con quello, prima di passare al paziente successivo, disinfettare  con alcool o cloro accuratamente tutti gli strumenti usati (fonendoscopio, saturimetro, sfigmomanometro da polso..).

Il caldo dentro la bardatura è insopportabile: il sudore fa appannare la maschera, i lacci del camice di TNT fanno scendere i pantaloni della divisa, i copriscarpe impacciano la camminata, ma si procede comunque, ben consci che non ci si potrà liberare di quest’armatura prima di aver finito tutto il lavoro a contatto dei malati.

Sono loro che ci regalano soddisfazioni e sorrisi e danno un senso alla nostra fatica: la vecchina centenaria a cui ad inizio visita avevamo dato la morfina convinti che non ci fosse più nulla da fare, e che invece a fine giro scopri che ha riaperto gli occhi e respira molto meglio di prima,  l’ ex alpino con due cappelli con la piuma sul comodino a cui bisogna rivolgersi in tono militaresco per convincerlo a farsi visitare, la signora che vuole a tutti i costi che le prendi la borsa nell’armadio perché ti vuole pagare per quello che fai.

Tutti ti guardano con gratitudine mista a paura e ti fanno sentire importante e utile. E riscopro il senso più profondo della nostra professione: quello di stare vicino a chi soffre e di aiutarlo in ogni momento della malattia e, se necessario, accompagnarlo fino alla fine.

D’un tratto mi rendo conto che non me ne andrò da qui, non chiederò di essere riassegnata, perché tutti i malati sono uguali, giovani e vecchi, gravi e meno gravi hanno tutti bisogno di aiuto e io ho bisogno di aiutarli.

Ci si riesce a liberare dell’armatura solo verso le 16.00 in 16 passaggi obbligatissimi e difficili, scritti a caratteri cubitali nello spazio “misto” del reparto che fa le veci dello spogliatoio, dove si crea sempre inevitabilmente una fila di operatori sanitari scalpitanti.

Finalmente si riesce ad andare in bagno e si prova ad andare in mensa, con la speranza di trovare qualcosa di avanzato.

Ma anche la splendida cuoca in questo periodo si fa in quattro: ci riscalda un po’ di pasta bollita e scotta, che con un filo d’olio ci sembra il piatto più buono che esista!!

Pomeriggio di compilazione cartelle elettroniche, prescrizioni di terapie, consegne agli infermieri ed assistenti, e nel frattempo arriva la ferale notizia che il tampone di V. è…POSITIVO.

Da domani sarà obbligatoriamente in quarantena; rimarremo noi due volontarie ad affiancare i due giovani colleghi per tutta la durata restante del nostro incarico (speriamo bene, V. era il pilastro portante..).

Diamo disposizioni perché sanifichino domani la sala medici dove siamo stati con lui e scappiamo in albergo a cercare di cacciar via qualunque preoccupazione sui contatti potenzialmente contagiosi avuti con lui con una doccia lunghissima…

 

05 aprile 2020 – Il valore della vita

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Domenica delle Palme.

Adesso so quanto valgo.

Ho aperto le email ed ho trovato la Polizza Assicurativa della Protezione Civile:

  • 700 euro se divento positiva al Coronavirus
  • 2.500 euro se mi devo ricoverare in terapia intensiva SENZA intubazione
  • 5.000 euro se mi devono intubare
  • 200.000 euro se muoio

Una mia paziente 200.000 euro li ha presi dall’assicurazione per la frattura scomposta di una caviglia… mah…

Oggi è domenica, e ci siamo concessi di iniziare mezz’ ora più tardi, confidando nel fatto che abbiamo deciso di formare due squadre, ciascuna si occuperà di una parte dei pazienti, e quindi dovremmo riuscire a fare più presto di ieri.

Tutto fila secondo i piani, a part il fatto che la mia collega chirurga ha dovuto lasciare il giro visite dopo poco perché aveva la maschera troppo stretta che le aveva provocato una violenta cefalea con una terribile nausea.

Riusciamo comunque a cavarcela: la situazione sembra abbastanza buona e sotto controllo, anche se ieri notte è deceduto un paziente (stavolta NON per infezione da covid).

Incredibile che ci siano ancora altre cause di morte, vero?

Il classico pollo arrosto della domenica, e poi le cartelle, ma poco dopo aver iniziato ci telefonano dal reparto perché una paziente che stamattina stava bene ha perso improvvisamente i sensi.

Cerchiamo di capire e risolvere telefonicamente nel tentativo di evitare un nuovo rito vestizione/svestizione, ma non si può.

Saliamo di corsa con il giovane collega, le infermiere ci mettono fretta, e la vestizione è un po’ meno precisa del dovuto, ma non c’è tempo da perdere.

Entriamo in reparto senza copriscarpe, con le maschere e le cuffie storte, ed i camici non chiusi con i cerotti (ci sono solo taglie XL che vanno ristrette con cerotti vari), le disinfezioni sono meno scrupolose.

Riusciamo a contenere l’urgenza, ma se ne accavallano altre 4: tutte febbri alte, improvvise ed impreviste, in pazienti già in terapia anti-covid ma anche in pazienti finora “puliti”, e torna la paura di una nuova ondata epidemica.

Non è facile mantenere la lucidità e la calma necessarie per le giuste decisioni terapeutiche con questa angosciante prospettiva, e questo un po’ mi spaventa, non so se riuscirò a superarlo.

Cerchiamo comunque di “tamponare” al meglio, incrociamo le dita, ci liberiamo delle armature, e concludiamo la giornata uscendo che ancora c’è una bella luce, un’aria primaverile, è la domenica delle Palme, è vero, è quasi Pasqua, ma non sembra proprio.

 

06 aprile 2020 – Nervi tesi

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Ieri sera non riuscivo a prendere sonno, ero piuttosto tesa, con in testa il turbinio di ricordi dei pazienti visti e delle cose da fare l’indomani.

Ma dopo un bel po’ ho capito il motivo vero per cui non riuscivo a prendere sonno: avevo paura di non aver usato adeguatamente le protezioni, di aver fatto male un passaggio della vestizione, insomma avevo paura del “mostro maledetto”!

Ho cercato allora di pensare al significato che tutto questo sconvolgimento mondiale non può non avere per una persona credente come me.

donna con mascherina chirurgicaSono sempre convinta che il Signore ci faccia affrontare prove anche tremende come quella attuale sempre e solo per il nostro bene, in un disegno imperscrutabile ma sempre guidato dall’Amore Universale, che ci sarà chiaro solo nel futuro.

Sicuramente ognuno di noi e noi tutti usciremo da questa esperienza decisamente ed inevitabilmente cambiati, e chissà che non riusciremo a riappropriarci di quei valori fondamentali per una società migliore di quella in cui abbiamo vissuto fino a prima della pandemia.

Così mi sono addormentata, e la giornata di oggi è iniziata in modo più “normale” (mi starò forse abituando?): riconoscevo i pazienti, e anche qualcuno di loro mi ha salutata come ricordandomi da ieri, i paramedici mi davano del tu come se fossi una vecchia conoscenza.

Questo è di notevole aiuto nel sopportare l’armatura: gli occhiali e i ferretti delle mascherine hanno cominciato a ferirmi la radice del naso, la collega più giovane ha un solco rosso con medico con segno degli occhiali sulla fronteescoriazioni sulla fronte all’ altezza del margine superiore della maschera.

Procediamo nella visita cercando di cogliere il significato dei suoni emessi da bocche senza più denti e dentiere.

Riesco a riconoscere un sorriso dall’espressione degli occhi del ragazzo tetraparetico, mi prendo una carezza sul viso dalla vecchina a cui ausculto il torace dal davanti, perché non ce la fa a sollevarsi.

Ma non potevano mancare i brutti imprevisti: la signora che ieri sembrava essersi ben ripresa dal temporaneo blocco cardiaco, all’improvviso peggiora, e scopro che è diventata fibrillante.

In ospedale sarebbe scattato il “protocollo fibrillazione atriale”, ma lì non sono attrezzati a quel livello e quindi abbiamo dovuta farla trasferire in Pronto Soccorso (decisione concordata telefonicamente con i colleghi dello stesso ospedale), avvertendo la figlia dello spostamento e cercando di calmarla dal pianto disperato per non aver potuto vedere la mamma in quello che pensava essere il suo ultimo viaggio.

Pranzo saltato per lite medico-paramedici per l’inosservanza meticolosa delle precauzioni da biocontenimento.

Il clima è teso, i paramedici sono molto provati da settimane continue senza riposi, non certo disposti ad accettare i rimproveri, un medico è particolarmente impositivo e un po’ supponente, e il personale minaccia di prendersi tutti i riposi non goduti da domani….sarebbe un vero dramma.

Con il caposala e gli altri colleghi riusciamo in qualche modo a calmare le acque, e pian piano il lavoro riprende, ma nel tardo pomeriggio arriva dall’Ospedale la comunicazione che la paziente trasferita da loro è positiva al Coronavirus.

Ci prende lo sconforto, lei era sempre stata asintomatica per covid (la malattia da Coronavirus) e quindi era stata sistemata in una stanza a due al secondo piano, quello “pulito”.

Ora bisogna trasferire la sua compagna di stanza al terzo piano (positivi che non stanno malissimo), far sanificare la stanza, ed allungare la lista dei pazienti covid.

Fondazione Comunità ArcoComincio a pensare ai piani di questo edificio in termini danteschi: il piano terra, quello dei sintomatici, l’ “inferno”. Il terzo piano, quello dei positivi asintomatici, il “purgatorio” e il secondo piano, quello dei negativi al coronavirus, il “paradiso“.

In compenso ci hanno portato 30 nuovi tests sierologici, che faremo da domani ai pazienti del piano “pulito”, e speriamo che in molti si rivelino protetti, in modo da avere la certezza che non si possano infettare.

Siamo tutti abbastanza provati, lasciamo ancora qualche consegna e decidiamo di andarcene, ci ritroveremo domani alle 8.00, e sarà un’altra “giornatina” di quelle, dovremo telefonare ai parenti per riferire delle condizioni dei loro cari, che non vedono ormai da un mese e mezzo….

Speriamo di riuscire a dormire meglio…

 

07 aprile 2020 – La morte

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Mi sveglio di soprassalto al tubare insistente di una tortora vicino alla mia finestra.

Stavo facendo un “sogno di comodo” in cui sistemavo il terrazzo di casa mia in modo che non nidificasse anche quest’anno la coppia di tortore che sembra aver eletto il mio terrazzo come luogo preferito.

Ho allungato la gamba e trovando solo il lenzuolo ho realizzato dove fossi.

Una fitta acuta di nostalgia di casa, sembra un secolo e non è neanche una settimana. Le nostre bellissime riunioni familiari, le mie nipotine adorate… ma è già tardi, alle 8 devo stare in struttura: caffè, bagno, vestiti (ormai sempre gli stessi, tanto li indosso solo per andare e tornare dal lavoro, mezz’ora in tutta la giornata… ma quand’era quando non sapevo cosa mettermi la mattina??), mascherina e via!

La vestizione comincia ad essere una sofferenza: ormai è ora di mettersi cerotti vari sul naso per le mascherine, sulla fronte per gli occhiali, e la pelle delle mani, nonostante l’abbondante crema che applico quando sono a casa, protesta quando fai le frizioni alcoliche ed indossi il paio di guanti più interno, e poi i maledetti capelli che non sono riuscita a tagliare prima di partire, lavati necessariamente tutti i giorni, si ribellano alla cuffia scivolando ovunque, potenziali vie d’ingresso al “maledetto”.

Stamattina il primo decesso per covid: un vecchino che già ieri eri in condizioni disperate. Ne ho dovuto constatare la morte alle 11:30.

Si può dire ancora “morte”?

Viviamo in una società talmente ipocrita che il nome “morte” non riesce più neanche a pronunciarlo: adesso si chiama “fine vita”. Come se evitare di pronunciare un nome ne esorcizzasse il significato.

Invece la morte fa parte della vita. Nasciamo con la data di scadenza stampata da qualche parte: per fortuna non riusciamo a leggerla.

Ma ad un certo punto della vita la nostra coscienza in qualche modo comincia a leggerla quella data: l’ho vista negli occhi di tanti pazienti quella consapevolezza.

Circondati da tanti cari che cercano in tutti i modi di nascondere una diagnosi infausta, quegli occhi sembrano dire: “non glielo dite ai miei che sto morendo”.

Che soddisfazione invece quando sono riuscita a capire cosa mi stesse dicendo la signora tracheostomizzata (aveva male ad una gamba), perché la gioia di essere riuscita a comunicare le ha illuminato gli occhi ed il viso, sorrideva tutta, e addirittura ci siamo fatte una risata quando ha detto di non avermi capito (la voce attraverso due mascherine non è nitida, e la mia cadenza non è certo quella di questa zona…).

Poi la grande difficoltà di sistemare la terapia psichiatrica di una paziente (ah, sempre la stessa società di prima, ha deciso che ora non si chiamano più pazienti, ma “persone assistite”: il termine paziente richiama troppo la sofferenza…).

Prima dell’epidemia stava bene, ma una volta spostata spostata dalla sua stanza ad una del piano più infetto per la comparsa di sintomi, si è chiusa totalmente al mondo esterno, rifiutando qualunque terapia e impedendo l’avvicinamento di chiunque.

Sono 4 giorni che non riusciamo a nutrirla né idratarla, e rischiamo di perderla per defedamento organico pur avendo apparentemente superato la fase critica dell’infezione.

Alla fine siamo riusciti ad escogitare una strategia terapeutica, all’inizio inevitabilmente forzata (sedativo in gocce versato a forza sotto la lingua e poi applicazione di infusioni liquide ipodermiche di idratazione e nutrimento), che speriamo riesca pian piano a farla ”riemergere”…vediamo domattina come va.

Ho dovuto poi confrontarmi col marito, che mi era stato presentato come persona molto aggressiva, ma che ho capito essere soprattutto in sofferenza acuta e disperata per non poter più avere contatti con la moglie da 45 giorni (la pz. rifiutava anche di sentire telefonicamente i parenti): con la dovuta calma e determinazione gli ho spiegato le nostre difficoltà e cosa stavamo cercando di fare con la moglie, gli ho promesso che l’avremmo aggiornato quotidianamente, e alla fine ho ottenuto dei ringraziamenti commossi.

Faccio tardi stasera al lavoro, ci sono un sacco di terapie da aggiornare, gli infermieri chiamano dai piani di continuo, sarei tentata di andare a verificare la tosse di uno, la glicemia dell’altra, il sospetto mughetto orale, ma non posso, se salgo devo ribardarmi tutta, e allora mi industrio a gestire tutto tramite gli occhi dei paramedici.

Questa maledetta bestia ci ha tolto la possibilità di constatare, toccare, palpare, ascoltare…la semeiotica con cui sono stata formata, e che adoro.

Ma non dovrà vincere lui, sono sicura che alla fine ce la faremo, ce la dobbiamo fare, e sarebbe bello che non ci dimenticassimo di tutto questo, e che tirassimo fuori da questa storia un “succo” positivo, quello di aver potuto riscoprire che l’unica, UNICA cosa che deve contare è la VITA, che ci è stata donata con un atto d’amore immenso e che non va mai data per scontata.

Adesso per addormentarmi non mi resta che l’ultima risorsa, il sonnifero più potente: la TV. La accendo e buona notte a tutti.

 

08 aprile 2020 – Il sogno

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Il mondo si divide in due gruppi: quelli che sognano e quelli che sono costretti a sorbirsi il racconto di quelli che sognano (l’ho letta da qualche parte, ma non mi ricordo dove).

Io sogno.

E siccome dicono che i sogni siano la rielaborazione delle esperienze vissute, provate ad indovinare che ho sognato!

Ho sognato di essere tornata a Roma (ma solo una scappata, sapevo di dover tornare di corsa dai covid) e di aver urlato per strada contro i joggers, podisti, genitori con bambini che non si rendevano conto del pericolo cui andavano incontro.

Così ho iniziato le mie abituali 12 ore in struttura, che ormai è come una seconda (terza?) casa: sto perfino imparando a rivolgermi ai pazienti con una certa cadenza nordica, se no non mi capiscono.

Finalmente oggi vedo persone che teoricamente stanno bene, perché abbiamo iniziato le visite con l’esecuzione dei tamponi rapidi sierologici ai pazienti del “paradiso”, quelli che non hanno mai mostrato sintomi covid-correlati.

In realtà, siccome ormai sembra che tutte le “certezze” mediche appartengano ad un altro mondo, durante la visita due pazienti sono precipitate in carenza di ossigeno (hanno desaturato), e abbiamo dovuto trasferirle di corsa al piano degli infetti.

La cosa più stupefacente è che nessuno degli altri pazienti si è particolarmente stupito, solo qualcuno ha chiesto: “anca ela alura ghe s’è presa la bestiaccia?” o qualcosa di simile…

Quindi visita come al solito molto lunga, impegnativa, perché ogni paziente va ricontrollato a fondo, non potendo dire con sicurezza chi abbia veramente superato del tutto l’infezione.

Poi oggi si sono verificati parecchi casi di congiuntivite e di gastroenterite, sintomi per ora qui abbastanza nuovi, per quanto noti come possibile parte dello scenario covid, che hanno impegnato parecchio tutto lo staff sanitario.

Gli OSS (operatori socio-sanitari) sono stati incredibili. Qui trattano gli ospiti della struttura come se fossero i loro nonni o parenti stretti: mai un lenzuolo sporco, una camicia da notte macchiata, unghie troppo lunghe, labbra troppo screpolate nonostante lavorino enormemente impacciati dalla “bardatura” indispensabile.

Il consueto briefing trisettimanale con la direzione per fortuna l’abbiamo fatto nello splendido e rigoglioso giardino dell’RSA, concedendoci una pausa all’aperto pur continuando a parlare di protocolli terapeutici, di nuovi studi, di risultati di tests, di come proseguire nel prossimo futuro.

Ma alla fine di tutti i discorsi è chiaro che in realtà brancoliamo nel buio: non si è ancora riusciti a standardizzare percorsi di diagnosi e terapia perchè il SARS-CoV-2 (questo è il nome ufficiale), ci fa lo sgambetto ogni volta che pensiamo di aver acquisito un dato certo su di lui.

Di certo c’è solo la totale imprevedibilità del decorso clinico, che non permette mai di “tirare” il fiato.

Essendo qui da una settimana ormai, come sempre succede, mi sono adattata a questa realtà lavorativa.

Me ne accorgo perché sta venendo meno lo stupore per quello che vedo accadere intorno, e questo, se è sicuramente utile per non essere schiacciati, è anche però un po’ triste, mi fa sentire più come una macchina che un medico.

Ecco perché non riesco a non scambiare due parole, quando riesco, con ognuno dei pazienti che visitiamo, perché questo mi aiuta ad uscire un attimo dall’armatura che vesto e ad indossare di nuovo il semplice camice da medico che mi piace tanto.

Poi, una volta tornata nel mio monolocale, leggo la mia posta e i messaggi sempre più numerosi di approvazione, sostegno ed elogio mi fanno sentire in colpa: NON SONO UN EROE, i veri eroi sono i pazienti che sopportano tutto questo…veramente!

Fra l’altro mi sento pure in colpa per aver “mollato” sulle spalle del mio povero consorte tutto il peso della mia parte di lavoro, a studio e a casa: lui si che è un vero eroe a supportare tutti i suoi ed i miei pazienti, nonché a fare il nonno-sitter alle nostre splendide nipotine!

Vero è anche che, come medici di base siamo abituati ad essere considerati medici di secondo livello (e non lo dico per autocommiserazione, ma è una realtà innegabile), anche e soprattutto in questa emergenza, in cui siamo costretti a combattere a mani completamente nude.

Anzi, senza mani, perché lo Stato a cui versiamo più del 60% dei nostri introiti in tasse non ha (dicono) la copertura economica necessaria a fornirci le protezioni necessarie per lavorare in tranquillità e sicurezza:

https://www.md-digital.it/site/index.php/professione/7250-pronti-a-chiudere-gli-studi-dei-medici-di-medicina-generale

…e domani lui dovrà andare a visitare a casa un paziente con un probabile ictus senza DPI.

Con questo “pensierino della sera” vado a cercare di dormire un po’….

 

09 aprile 2020 – Una giornata da dimenticare

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Una giornata da dimenticare: hanno voglia a dire che il picco è passato, siamo al plateau… Qui non direi proprio.

Nella “nostra” struttura , dopo qualche giorno di relativa tranquillità, che ci aveva permesso ieri di trovare il tempo di effettuare i tests sierologici ai pazienti del piano “pulito”, oggi alle 19 abbiamo dovuto dichiarare “sporco” anche quel piano, con tutti e 36 le persone ospitate.

Perché adesso questa maledetta bestiaccia si sta palesando in modo più subdolo e fulminante di prima: abbiamo perso un paziente che stava apparentemente bene fino alle 13.

Lo avevamo visitato alle 10, mentre mangiava lo yoghurt dello spuntino, lo abbiamo visto pranzare alle 12.

Alle 15 la telefonata del caposala mentre eravamo a mensa, il tempo (infinito!!) di reintabbarrarsi, salgo con la collega e ci rendiamo subito conto che la situazione non è più gestibile senza presidi respiratori.

Il poveretto respirava con molta fatica, e la bombola d’ossigeno aperta al massimo non riusciva ad assicurargli che appena la metà dell’ossigeno necessario per sopravvivere.

Chiamiamo l’ambulanza dopo accordi telefonici con il pronto soccorso dell’ospedale locale; il mezzo arriva in 5 minuti, accompagnano la barella i colleghi non “vestiti”, e corro ad avvisare la moglie del trasferimento del marito in ospedale (distante meno di 1 Km dalla nostra struttura).

Ma appena riattacco la cornetta, ricevo la telefonata del collega del Pronto Soccorso che mi chiede notizie del paziente che era arrivato..MORTO!

Quasi sicuramente si è trattato di embolia polmonare massiva da covid, visto che il paziente era risultato positivo al test fatto il giorno prima.

Proviamo allora a correre ai ripari, rivisitando TUTTI ancora più accuratamente e iniziamo terapie anticoagulanti a tutti quelli risultati positivi al test, anche se totalmente asintomatici, mentre si aggiunge tutto il protocollo terapeutico anticovid anche al più piccolo sintomo.

Decidiamo di considerare da covid anche questa strana dermatite a piccole bolle che sempre più pazienti stanno presentando sugli arti e sul tronco, rivoluzionando quindi tutte le consegne date finora all’infermeria che, nel frattempo, ha visto gli operatori dimezzarsi per positività del tampone nasale….una strage.

Ma ovviamente non poteva bastare tutto questo, perché precipita nel frattempo un’altra paziente, che al PS non ci accettano perché sono strapieni nei reparti covid, e a 93 anni dicono che più di quello che possiamo fare noi non potrebbero fare.

Allora la carichiamo di morfina e sedativi per permetterle di sopportare l’ossigeno in mascherina e non soffrire troppo finchè il Signore deciderà di tenerla in vita.

Col secondo paziente, quasi uguale a lei, nonostante sia un po’ più “giovane” (85 aa) nemmeno ci proviamo a contattare il PS: a lui bolo di cortisone a dose massiccia e tutta la morfina necessaria a far sì che non soffra, mentre il suo compagno di stanza continua a chiederci di non far soffrire il suo amico, spaventato del continuo andirivieni di tutti gli “astronauti” intorno all’altro letto.

Riusciamo a svestirci verso le 19, e stavolta la svestizione è taciturna, non ci va di scherzare per sdrammatizzare la situazione, siamo troppo presi da questa situazione, e sappiamo che da domani la “lotta” quotidiana sarà parecchio più dura, perché non possiamo considerare più nessun paziente covid negativo, perché infermieri ed OSS saranno la metà, con un carico di lavoro maggiore per la maggiore complessità delle terapie, e io mi sento come se stessimo annaspando nel tentativo (vano?) di galleggiare.

E’ come se ci fosse stato un naufragio colossale, ed i superstiti stiano cercando di sopravvivere, e non è facile concentrarsi sempre sul proprio salvataggio quando sei circondato da gente che sta affogando molto peggio di te.

Non è facile avere sempre la freddezza e lucidità necessaria a non dimenticare MAI NESSUN passaggio della catena di pulizia che finora non ha mai dovuto far parte del nostro lavoro.

E allora una volta ti dimentichi di fare la frizione alcolica del paio di guanti intermedio prima di calzare il più superficiale, un’altra volta di disinfettare bene il fonendo o il pulsossimetro fra un paziente e l’altro, poi se i copriscarpe si rompono mentre cammini non hai sempre il tempo di andarli a sostituire. Se scappa qualche ciuffo di capelli da sotto la cuffia non puoi rimetterlo a posto subito, dovresti prima cambiarti i guanti e frizionare poi il ciuffo scappato con soluzione alcolica prima di rimetterlo a posto, e quando ti rendi conto di questi piccoli errori lì per lì dici “vabbè dai, che vuoi che sia, qua l’aria è quasi satura di vapori alcolici”, ma è una scusa, e se ti fermi a pensare a questi errori prende la paura, ma solo per un attimo, c’è troppo da fare, non ci si può fermare.

Anche la doccia appena tornata a casa, (la chiamo la doccia anticovid, perché bisogna lavarsi integralmente e accuratamente- anche i capelli, sigh!) non è un piacere, ma un obbligo antipatico per questo virus maledetto, ma non c’è alternativa, il pericolo di contagio è assolutamente troppo alto, e non si può abbassare la guardia!

Leggo che si pensa alla fase 2, alla riapertura, mio marito mi dice che Roma si sta ripopolando, che i pazienti stanno scalpitando per tornare ad essere visitati a studio, e questo, insieme a quello che vedo in questa mia esperienza mi TERRORIZZA: “quello” (il corona) sta sempre lì, dietro la porta, pronto a colpirti quanto gli va quando gli va, anche se si comincia ad esserne meno spaventati, e comprensibilmente cerchiamo di riprenderci la vita di prima, ma forse è proprio questa prospettiva a spaventarmi di più, perché nell’incoscienza e nella superficialità questa bestiaccia prolifera al meglio.

Anch’io ho tantissima voglia di riprendere la mia vita nella mia splendida grande famiglia: oggi è iniziato il periodo più pieno dei nostri compleanni, che abbiamo sempre festeggiato tutti insieme, con feste immancabili, spontanee, divertenti ed insostituibili, e penso che dovremo farci bastare una videoconferenza, ma siamo troppi per poterci vedere tutti insieme, ed i piccoli della tribù (i più divertenti) non ci sarebbero, ma ce lo dovremo far bastare, e forse allora quando potremo ritrovarci la gioia sarà ancora più grande.

 

10 aprile 2020 – L’inverno in primavera

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Anche oggi giornata non bella: stanotte è morta una vecchina, ce lo aspettavamo, e l’abbiamo certificata come “morte non covid”, cosa rara di questi tempi, e solo parzialmente consolatoria.

I “nostri” vecchini non stanno bene, sono tutti almeno depressi per non aver più potuto vedere i propri familiari (noi cerchiamo di assisterli nelle videochat, ma non è facile, molti non capiscono dove stiano quelli che vedono sullo schermo del tablet), per aver visto eliminate tute le loro attività, per non poter uscire ciascuno dalle proprie stanze, non poter mangiare con gli altri ospiti della struttura, e anche perché sono disorientati dalle nostre bardature che ci rendono irriconoscibili.

Quindi adesso molti non si alimentano più bene, e abbiamo dovuto far ricorso alla nutrizione parenterale endovenosa, che però non può durare più di qualche giorno, perché le loro vene sono molto fragili, ma in realtà sappiamo bene che la medicina giusta per tutti loro sarebbe potergli ridare la vita di “prima” (ormai per tutti noi la vita non potrà non dividersi fra un “prima” e, speriamo, un ”dopo”).

Sappiamo che loro aspettano la nostra visita quotidiana, chi può ce lo dice, chi non può ce lo fa chiaramente capire, e quindi ci sforziamo sempre di entrare in tutte le stanze, almeno per un saluto a ciascuno di loro, stabili o critici che siano, ma questo significa visitare tutti i giorni 60-70 pazienti, e non è una passeggiata, anche perché ormai questa residenza è un vero e proprio ospedale, ma, a differenza di questi, dove il rapporto personale sanitario/paziente è in media di 1 medico , 1 infermiere ed 1 assistente almeno ogni 8-10 pazienti, qui il rapporto è triplicato solo a favore del numero di pazienti.

Naturalemnte poi sono immancabili le situazioni molto critiche, sia in acuto che in cronico: oggi pomeriggio siamo dovute risalire di corsa per la comparsa di una sindrome da distress respiratorio acuto sviluppatasi in 30 minuti in una signora con tampone dubbio, Rx torace negativo per polmonite, che fino a mezz’ora prima parlava normalmente seppur bisognosa di un po’ di ossigeno.

E con lei, ancora una volta, abbiamo dovuto constatare la TOTALE imprevedibilità e pericolosità di questa infezione, capace di falcidiare come un violentissimo uragano qualunque persona trovi sul suo cammino.

E ovviamente ancora una volta abbiamo cercato di arginare senza successo questo turbine: con morfina, anticoagulanti, ventilazione forzata (qui hanno solo una venti-mask, cioè una mascherina capace di concentrare l’ossigeno della bombola, tentando di non arrenderci, di capire, ma riuscendo poi solo a ritardare la fine inevitabile

Con ogni probabilità domattina questa paziente non ci sarà più, come anche, purtroppo, altri due pazienti che oggi si stavano spegnendo come candeline con i polmoni stravolti da questa bestiaccia.

E fuori , ma solo fuori, c’è una meravigliosa primavera calda, che sbirci quando passi vicino ad una finestra, ma che non si può vivere, perché dentro la stagione si è fermata all’inverno quando è arrivato il virus.

Fuori dai reparti c’è un meraviglioso grande giardino attrezzato, che fino al Novembre scorso ha ospitato tutti i residenti con i familiari quando li andavano a trovare (la struttura era sempre aperta al pubblico proprio per consentire la massima vicinanza delle famiglie ai loro cari ospiti della stessa), e dove ora, come magrissima consolazione, facciamo i nostri meeting quotidiani con la direttrice per cercare tutti insieme le strategie migliori per affrontare tutto questo.

Fra 8 giorni il mio mandato scadrà, a questo mi sforzo di pensare quando partecipo a questi briefing, ma è una realtà troppo impellente per potersene estraniare veramente: le protezioni che la ASL locale non fa arrivare, e quindi la ricerca affannosa di soluzioni autonome ma sicure per le quali, da oggi quando ci bardiamo sembriamo degli strani arlecchini.

Camice azzurrino che arriva appena sotto il ginocchio, calzari verdi che bisogna fissare alle gambe dei pantaloni della divisa con il cerotto di seta altrimenti scivolano, guanti bluastri e bianchi incerottati ai polsi, mascherine di tutti i colori, cuffie bianche che sembrano di garza sottilissima e che bisogna sovrapporre almeno in doppio strato per una protezione decente, maschera di copertura occhi nera, grigia e verde.

Il personale che è esausto e vorrebbe un riposo almeno ogni due settimane, i tamponi che non si sa a chi vanno fatti..come ci si può isolare veramente da tutte queste necessità pensando solo che “tanto tra un po’ torno a casa”?

E quindi stiamo cercando di organizzare una “sorpresa” di Pasqua per tutti i pazienti (qualche ovetto colorato a quelli che mangiano normalmente, una chiamata dai parenti per gli allettati coscienti), per cercare di non dimenticare che festeggiare come si può è sempre importante, soprattutto quest’anno in cui SEMBRA non ci sia niente da e per festeggiare.

Per cercare il più possibile di dare un senso positivo ad una situazione che positiva non sembra proprio, ma che ha in sé il germoglio della rinascita, purchè ognuno di noi lo coltivi con pazienza e cura, per permettergli di sbocciare quando potrà, sorprendendoci con la sua bellezza semplice, essenziale ed unica come ogni vita è.

 

11 aprile 2020 – Anche la Morte va in vacanza

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Giornata inaspettatamente tranquilla: i nostri tre pazienti più critici di ieri, contro ogni aspettativa, hanno continuato a tenere duro, per quanto le loro condizioni rimangano molto difficili e delicate.

La maggior parte degli altri ospiti della struttura sono stazionari o addirittura in miglioramento, ma, ovviamente, non poteva mancare almeno qualche imprevisto.

Oggi infatti è stata la giornata delle fratture: una signora è scivolata alzandosi dal WC e si è, probabilmente, rotta il femore; quindi abbiamo dovuto mandarla in pronto soccorso.

Un’altra, una dolcissima signora francese, ha avuto una frattura osteoporotica del polso appoggiandosi al tavolino per alzarsi dalla sedia, e per lei abbiamo rimediato steccandole il polso e la mano con il tutore della signora tracheostomizzata, per evitarle l’ospedalizzazione.

Dulcis in fundo, nel pomeriggio, tanto per cambiare, abbiamo dovuto “ribardarci” per andare a controllare un signore molto burbero ed ostinato che, rifiutando l’aiuto degli operatori per alzarsi dalla sua sedia, è caduto pesantemente, facendoci temere per qualche frattura, che per fortuna non sembra essersi procurato.

Ma, “visto che ci eravamo rivestite”, non poteva mancare l’urgenza internistica: un ictus in una paziente che era in fase di guarigione da polmonite da covid, per la quale abbiamo potuto fare ben poco, visto che se l’avessimo ospedalizzata non sarebbe cambiato molto e abbiamo l’abbiamo messa in terapia infusiva blanda… speriamo bene…

Quindi, in realtà, oggi non abbiamo avuto nessuna emergenza covid: anche la morte sembra essere andata in vacanza in questi giorni di Pasqua.

Ma mentre tornavo a piedi a casa, godendomi il sole e la splendida aria primaverile, ho incontrato il collega che assegnato al pronto soccorso dell’ospedale locale, che mi ha raccontato di aver ricoverato dalle 8 alle 17 ben 16 casi di polmonite da covid. Una bella percentuale per una cittadina di poco più di 17.000 abitanti.

Insomma, il virus c’è ancora e in abbondanza, e qui la gente lo sa molto bene: in giro non c’è ancora quasi nessuno, i supermercati non sono affatto affollati e non c’è persona che giri senza mascherina.

Ricorderemo a lungo questo periodo proprio con l’immagine della mascherina che ne è diventata il simbolo più evidente e che oggi ho percepito come una vera e propria barriera che mi impediva di respirare a pieni polmoni, come questo virus ci sta impedendo di vivere la nostra vita “a pieni polmoni”.

Domani ci siamo ripromesse di andare a fare almeno un saluto a tutti i nostri pazienti, che ci aspettano veramente ansiosi ogni giorno, anche se non sempre riusciamo a vedere tutti.

Cercheremo di fermarci a scambiare due parole soprattutto con quelli più soli, perché permettere loro di parlare un po’ con qualcuno in carne ed ossa, anche se mascherato da astronauta, è il regalo più bello che possiamo fare!

Buona Pasqua a tutti, e spero che tutti riescano a festeggiarla con pienezza anche senza l’abituale compagnia, perché se ci riusciremo questo significherà aver saputo tirar fuori da questa storia tutta la parte positiva, e forse allora potremo sperare di potercela lasciare alle spalle per davvero!

 

12 aprile 2020 – Piccole grandi storie

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Santa Pasqua.

Oggi è stata una giornata bella, come speravo, sia come tempo atmosferico (qui ha fatto una massima di 24 gradi!) che dal punto di vista lavorativo, anche se, purtroppo, una dei tre pazienti critici di ieri se n’è andata nelle prime ore di stamattina.

Ma gli altri due rimangono, seppure nella loro criticità, piuttosto stazionari, e comunque non in peggioramento: è incredibile quanto a lungo sia capace il nostro corpo di rimanere attaccato alla vita, anche quando questa è ridotta ad un filo!

Nella paziente con il distress respiratorio è da 36 ore che non riusciamo a registrare parametri vitali (saturazione del sangue, temperatura corporea, pressione arteriosa), ma il cuore batte ancora regolare ed il respiro è solo un po’ più frequente del normale, ma c’è, e comunque si riesce a farle alzare leggermente le palpebre con qualche stimolo doloroso.

La davamo per spacciata da lì a pochissimo due giorni fa, sia noi medici che gli infermieri, e invece, da donna sempre molto forte e determinata quale la figlia mi ha raccontato essere sempre stata, eccola che si abbarbica a quel filino vitale che ancora c’è nel suo corpo.

Questo ancora una volta dimostra quanto poco possiamo contro le logiche incomprensibili della vita, tanto più quando intervengono fattori nuovi totalmente ignoti come questo maledetto coronavirus.

E spesso è difficile e doloroso cercare di farlo capire ai familiari dei pazienti, che ci chiedono di fare delle previsioni che umanamente vorremmo tanto poter fare, nel bene e nel male, ma che la coscienza professionale della nostra pochezza ci impedisce.

Però oggi sono soddisfatta, perché non abbiamo avuto nessun evento negativo acuto, perché la paziente con l’ictus di ieri sembra avere parzialmente recuperato la lucidità e la parola (incredibile all’età di 89 anni e dopo un’infezione da covid..), e anche la francesina con il polso fratturato non si lamentava più del dolore.

E poi siamo riuscite (grandi!) a portare i nostri saluti a TUTTI e 67 i nostri pazienti, raccogliendo qualche loro più o meno strampalata confidenza, ma in effetti monitorandoli attentamente tutti.

Nessuno aveva problemi importanti nuovi, e tutti ci hanno ringraziato, ciascuno a modo proprio, raccontandoci qualcosa di loro.

La signora con la tracheostomia, affetta da una grave patologia genetica distrofica midollare di cui soffre anche il fratello più giovane (che per ora è solo in carrozzina) è riuscita a diventare avvocato e a lavorare per una decina d’anni, ed ora occupa il suo tempo leggendo tantissimo e cercando di disegnare e colorare.

La signora N., 96enne dolcissima e perfettamente lucida, oggi ci ha benedetto e confidato che ci invidia, perché abbiamo l’età in cui possiamo ancora essere utili al prossimo, mentre lei pensa di non esserci riuscita (falsissimo, dicono le nipoti…)perché limitata troppo dal fatto di aver perso una mano ed un dito dell’altra in un incidente di gioco da piccola.

L., il ragazzo tetraplegico dall’età di 18 aa per lesione cervicale da trauma stradale ci ha regalato il suo sorriso più grande quando siamo entrate in stanza, mentre il terribile signor L. mi ha insultato quando gli ho negato il bicchiere di vino che mi chiede tutti i giorni.

Piccole grandi storie di una realtà non certo facile, resa quasi tragica dalle circostanze che stiamo vivendo, che stiamo però cercando di migliorare, e forse, qualche volta almeno, riusciamo a farlo.

Non sappiamo domani come andrà, ma sicuramente saremo sempre pronti a dare il nostro aiuto concreto, e non importa se dentro le protezioni si suda da morire, se si soffoca quasi dentro le mascherine doppie, se dobbiamo monitorare alcuni pazienti ogni 10 minuti per molte ore, se tutto questo servirà a migliorare anche solo un po’ tutto quello che queste persone stanno passando, allora sarò veramente contenta e soddisfatta del mio lavoro.

Speriamo che il Signore mi conceda questa gioia.

 

13 aprile 2020 – La Morte ha finito la vacanza

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E’ il Lunedi dell’Angelo, e qui è il primo giorno che ci sono un po’ di nuvole; non che mi importi particolarmente, la mia giornata inizia sempre intorno alle 8, ma per me il sole è sempre stato energia vitale indispensabile, e quindi il tragitto che mi porta al lavoro oggi è stato un po’ meno piacevole dei giorni scorsi.

Scendo nella nostra sala medici, una specie di grande bunker sotterraneo comunicante con l’esterno solo attraverso una porta tagliafuoco, e V., la giovane collega (che è più piccola dei miei figli, ma che con questa esperienza si sta veramente “facendo le ossa”) è già lì da un po’.

Mi dà purtroppo la notizia che poche ore prima è deceduta una paziente che ieri non destava alcuna preoccupazione, con un’improvvisa crisi respiratoria.

Compiliamo le scartoffie necessarie per il trasporto e la cremazione della salma, e ci “vestiamo” cercando di tirarci su di morale considerando che i nostri due pazienti più critici stanno ancora reggendo.

La visita è stata lunga perché completa e il più possibile accurata, cercando di non farci sfuggire nessun particolare di ogni paziente, per evitare il più possibile brutte sorprese.

medico volontari cura paziente anzianaNelle tre ore abbondanti di giro visite la signora già grave diventa agonizzante e, purtroppo, ho assistito impotente agli ultimi minuti di quella vita a cui si era finora aggrappata con tutte le su forze, che adesso non c’erano più.

L’altro paziente grave invece, ha resistito un’oretta in più, ma poi ho dovuto anche per lui constatare il decesso, e stavolta è stato un po’ un sollievo, perché non siamo riusciti ad eliminare completamente la sua sofferenza finale nemmeno con alte dosi di morfina.

Aggiungendo a queste tre il decesso di un altro paziente avvenuto poco dopo la mezzanotte (seguito soprattutto dall’altra coppia di colleghi), in totale oggi abbiamo fatto ben quattro certificati di morte per polmonite da covid.

Ed è pesante quando si dà la notizia ai familiari e si sente la loro disperazione per aver perso una madre, padre, nonno che non vedevano da due mesi e che non potranno salutare nemmeno un’ultima volta.

Che bastardo che è questo virus, ci sta portando via le cose più belle della nostra vita, ma dobbiamo cercare di trasformare la rabbia nei suoi confronti in forza per combatterlo, ognuno con i mezzi che ha a disposizione, che non saranno mai e poi mai insignificanti, se ognuno di noi li userà sul serio fino in fondo.

A questo proposito, oggi ho avuto una dimostrazione di quanto coraggio, dedizione e forza stia dimostrando la popolazione di queste parti in questo frangente.

Uno degli addetti al trasporto e smaltimento dei rifiuti speciali (qui al giorno produciamo qualcosa come un centinaio di contenitori di quei rifiuti) è salito a chiederci la cortesia di chiedere al personale delle cucine di fare attenzione a non buttare liquidi di tipo oleoso nel piazzale di raccolta dei contenitori, attiguo all’uscita delle cucine, perché lui passando sopra ad una chiazza di acqua e olio oggi era scivolato malamente lussandosi una spalla (già operata per lussazioni ripetute) e procurandosi anche una distorsione della caviglia.

Ma lungi dal volere assistenza medica e non avendo alcuna intenzione di interrompere il suo lavoro, si era già fatto rientrare la spalla da solo: non ha voluto nemmeno che dessimo uno sguardo alla sua caviglia perché “qui non ghe se pò fermar, c’è bisogno e si lavora tutti in ‘sto momento”.

Penso che questa frase riassuma e spieghi molto bene lo spirito che si respira da queste parti, anche se non mancano le eccezioni: tornando ho visto due ragazzi camminare tenendosi abbracciati e senza mascherina, ma si sa che i giovani pensano sempre di avere una sorta di “immunità parlamentare”…

Continueremo a lavorare a testa bassa, con la stessa caparbietà e coscienza di quel trasportatore, perché finchè potremo essere utili saremo veramente vivi, e vivendo vinceremo sicuramente, anche se il post-emergenza sarà piuttosto duro e, soprattutto, ci obbligherà a vivere in un mondo e in un modo molto diversi da quello a cui eravamo abituati.

Ma non so se questo sarà veramente un male…

 

14 aprile 2020 – Non c’è speranza senza paura

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Ieri ho letto un frase di San Papa Giovanni Paolo II : “non c’è speranza senza paura, non c’è paura senza speranza”.

Ecco, penso che questa frase si adatti a pennello alla mia giornata di oggi, che è iniziata con la notizia (ormai tristemente abituale) che nelle prime ore del mattino era deceduta un’altra paziente per polmonite da Coronavirus.

Così oggi, la front page del programma di gestione delle cartelle cliniche segnava un numero abbastanza impressionante di ospiti residenti: 102, cioè ben 48 in meno rispetto a un mese fa, di cui 20 negli ultimi quindici giorni.

Ci sembrava il conteggio dei morti in uno scenario di guerra terrestre, come in un film sulla prima o seconda guerra mondiale, e la similitudine era aumentata dalle condizioni dei “superstiti”: tutti in condizioni decisamente peggiori rispetto alla partenza, con “ferite” più o meno gravi, con le quali a volte non è facile continuare a vivere bene.

I nostri 102 vecchini infatti ora sono così: tutti un po’ “acciaccati” dalle conseguenze di quest’infezione ma, soprattutto, spaesati e depressi, e rischiano di spegnersi come candeline anche se spesso le loro analisi sono sorprendentemente buone.

medico volontario: panorama dalla rsaAllora stamattina, visto che il tempo ha ripreso una bella impronta primaverile, abbiamo dato disposizioni agli operatori di cercare di mobilizzare tutti i pazienti e di cercare di metterli sui balconi delle loro camere, per far riassaggiare loro il sole, l’aria fresca e la vista delle prealpi con ancora qualche spolveratina di neve sulle cime più alte.

Per ora non possiamo fare di più, non possiamo allentare troppo le misure contenitive, i contagi stanno diminuendo, e speriamo che fra qualche giorno riusciremo a togliere l’ossigeno agli ultimi due pazienti che ancora lo stanno facendo, ma dobbiamo usare la massima cautela, perché la bestiaccia è ancora fra noi, e abbiamo il terrore che rispunti fuori inaspettatamente forse più crudele di prima.

La situazione clinica complessiva è discreta, ma la strada per poter tornare al menage di struttura di soggiorno più che di cura penso che non possa non essere ancora lunga, ma la reazione alla paura genera speranza, e non c’è speranza senza paura.

Tra l’altro adesso a fase critica un po’ superata (speriamo!) cominciano le preoccupazioni burocratico-legali, inevitabili nel nostro mondo e soprattutto nel nostro Paese, che per ora si affiancano a quelle mediche vere e proprie, ma che prevedo fra poco prevarranno su queste, trascinandosi ed allargandosi come lo strascico di un macabro vestito da sposa.

Ed ecco allora che si cerca di correre ai ripari, e finalmente la direzione sanitaria decide di sottoporre a tampone tutto il personale assistenziale, e non solo i sintomatici come fatto finora seguendo le direttive dell’azienda sanitaria locale.

Bisogna però anche riconoscere che fino a qualche giorno fa la prospettiva di dimezzare il personale per le eventuali assenze obbligatorie per quarantena ci terrorizzava tutti, perché avrebbe significato il tracollo definitivo della struttura a scapito, ovviamente, di tutti gli ospiti.

Abbiamo quindi effettuato oggi la prima tranche di 21 tamponi nasofaringei per covid al personale assistenziale, domani bisseremo con il personale amministrativo ed ausiliario e… incrociamo le dita.

Anche perché, nel compilare le schede cliniche di accompagnamento dei tamponi abbiamo scoperto che circa l’80% ha avuto, nelle scorse settimane, disturbi del gusto e dell’olfatto che ormai si ritengono universalmente sintomi chiari di infezione da covid.

Speriamo solo che questo corrisponda, nelle persone che ne hanno sofferto, alla fase decrescente dell’infezione, e che il loro tampone risulti negativo per carica virale troppo bassa!

Però è stato bello, anche se si è trattato solo di un quarto d’ora in un briefing di circa un’ora, sentir parlare della prospettiva di poter far tornare qualche ospite nelle sale comuni ed in giardino.

Parlare di fisioterapie (ormai i muscoli dei nostri pazienti sono diventati inesistenti quasi per tutti…), di un po’ di animazione, anziché dei soliti deprimenti schemi terapeutici e diagnostici, delle difficoltà di approvviggionamento dei DPI e dei farmaci, di flebo ricostituenti e di farmaci antidepressivi.

Che sia l’inizio della fine? Non c’è paura senza speranza…

 

15 aprile 2020 – Lascia o raddoppia?

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Oggi posso dire che abbiamo lavorato senza affanno: i pazienti più critici ci hanno lasciato, e per quelli rimasti possiamo tornare a concentrarci sulle loro patologie, e quindi terapie croniche, che erano state spesso necessariamente modificate dalla necessità di usare protocolli terapeutici anticovid.

Ed ecco che, del tutto insperabilmente, la signora M.L., che aveva superato benissimo l’infezione da corona, ma che si stava lasciando morire di fame e disidratazione per aver dovuto interrompere la sua abituale terapia psichiatrica, dopo qualche giorno di sedazione forzata che ci ha permesso di nutrirla per via venosa, stamattina si è fatta imboccare finendo la colazione e quasi tutto il pranzo, e quindi ne abbiamo subito approfittato per ridarle i suoi vecchi farmaci, che vanno assunti per bocca… speriamo solo che duri!

Stiamo poi da due giorni mobilizzando tutti gli ospiti, e qualcuno ha anche accettato di uscire sul balcone della propria stanza; E., la fantastica nonnina di Malè, ne ha subito approfittato per curare i fiori nelle balconiere, estirpando erbacce, sistemando il terriccio, annaffiando il giusto, e ho visto nei suoi occhi oggi per la prima volta il lampo di gioia vitale che poter fare quello che piace produce sempre! E domani ha detto che si dedicherà agli altri balconi del suo piano.

Non sono però tutte rose e fiori, la tristezza e la depressione affliggono la stragrande maggioranza dei nostri pazienti, con manifestazioni diverse a seconda dei diversi caratteri, e solo a volte i farmaci specifici riescono ad aiutare veramente, ma continuiamo a provarci sempre.

Anche riuscire a ristabilire un comportamento normale in un’ospite che prima urlava sempre per richiedere attenzione è una conquista eccezionale, che innesca reazioni positive a catena: la sua compagna di stanza riesce a farci una bella chiacchierata (simpaticissima pur nella sua astrusità) e quindi mangiano insieme, e nelle stanze vicine riposano meglio, e quindi stanno un po’ meglio anche durante il giorno.

Insomma, la tempesta sembra passata, ma c’è da sistemare tutto il “fango” che si è lasciata dietro, e non è cosa da poco, soprattutto quando si ha a che fare con equilibri complessi e fragili come quelli dei nostri nonnini.

Adesso però possiamo iniziare a pianificare l’esecuzione di tests diagnostici sui pazienti, in modo da identificare con sicurezza quelli ancora infetti e contagiosi da quelli guariti e “puliti”.

Se quest’ultimo gruppo fosse di almeno 10 persone, si potrebbe pensare alla riapertura di qualche area di ritrovo comune, per favorirne la risocializzazione e la ripresa di attività fisioterapiche indispensabili per ridare loro un minimo di tono muscolare.

Ma tutto questo necessita di individuazione di percorsi “puliti”, e quindi ogni paziente dovrebbe essere accompagnato da un operatore, ed attualmente il rapporto operatore/ospiti è di 1 su 6 (sempre senza calcolare le probabili assenze per quarantena obbligatoria che dovranno avvenire a seguito dell’esito dei tamponi che stiamo eseguendo sul personale).

E oggi, mentre a mensa stavamo appunto parlando di tutto questo, è arrivata un’altra piccola “bomba”: la telefonata del nostro responsabile provinciale che ci chiedeva la disponibilità a prolungare il nostro servizio oltre il termine previsto.

Questa proprio non me l’aspettavo, e quindi la prima risposta a caldo è stata un no abbastanza deciso.

Proprio in questi ultimi giorni si stavano precisando i termini di tutti i passi necessari per il ritorno a casa: tempi e modalità di esecuzione dei tamponi nasali finali, prenotazione dei biglietti ferroviari fino al proprio domicilio.

E la nostalgia di “casa” e di tutto quello che questo comporta si va facendo sempre più acuto, mi manca l’amore della mia vita, mi mancano le mie nipotine bellissime, mi manca il mio divano…

Ma poi, di fronte alla delusione nel tono del referente e lo sguardo un po’ triste dei nostri giovani colleghi mi ha fatto parzialmente fare marcia indietro, e ho concluso che domani darò la mia risposta definitiva.

Ho realizzato che mi costerà abbastanza lasciare questo posto di lavoro, e soprattutto V. e M, i colleghi neolaureati, con cui abbiamo creato un bel rapporto, costruttivo, sereno e anche divertente, pur in questo tragico periodo.

Mi costerà un po’ anche salutare per sempre L., il ragazzo tetraplegico, A.M., la signora tracheostomizzata, E., la “giardiniera”, N., la splendida signora amputata, e H, la francesina un po’ capricciosa, e in fondo tutti gli altri ospiti, anche i più scontrosi e “difficili”.

Ma la mia risposta definitiva all’offerta sarà negativa, la mia vita non può essere qui, cercherò solo di vivere e lavorare al meglio in questi ultimi giorni, non pensando troppo al ritorno, ma immergendomi il più possibile nel presente per potermi portar dietro quante più esperienze e ricordi possibili.

 

16 aprile 2020 – La quiete dopo la tempesta

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La tempesta si è sicuramente calmata, le onde sono molto meno spaventose, il mare è navigabile, ma la navigazione è difficile e sostanzialmente a vista: questa è più o meno la situazione che in questi ultimi giorni si è andata definendo nella RSA dove sto lavorando.

Sono sparite le bombole di ossigeno, i quantitativi di ordini per farmaci del protocollo terapeutico anticovid sono quasi azzerati, ma rimane ancora molto alto il consumo di anticoagulanti, ritenuti indispensabili nella prevenzione delle complicanze trombotiche anche tardive, ma comunque estrememente pericolose, di questa infezione.

A volte mi sembra di giocare a nascondino con la bestiaccia: si è sicuramente “sfamata”, ma non saziata del tutto, quindi si è per il momento acquattata, ma altrettanto sicuramente è sempre lì pronta a sferrare nuovamente i suoi attacchi per i quali le armi che abbiamo a disposizione sono poche e poco adatte.

E allora ecco che cerchiamo disperatamente le sue tracce, per scovare ed anticipare le sue “mosse” controlliamo tutti sempre, facciamo analisi frequenti ed approfondite, e aggiustiamo le terapie giornalmente a quasi tutti i pazienti modulandole in modo da contrastare le impennate infiammatorie o trombogene che potrebbero minare fortemente gli organismi dei nostri ospiti.

Oggi è venuto in nostro aiuto anche un collega radiologo, che ha fatto ecografie toraciche finchè non gli si è scaricata la batteria dell’ecografo, e questo ci ha permesso di verificare i danni polmonari provocati dalla malattia virale, una sorta di certificazione dell’effettiva origine virale (da coronavirus) delle sindromi respiratorie curate finora… triste consolazione!

Comunque qui si è ormai giustamente lanciati per la “fase 2”, che significa pianificare il ritorno all’abituale gestione di casa di riposo di quello che attualmente è, a quasi tutti gli effetti, un ospedale covid.

Per far questo bisogna programmare con attenzione l’esecuzione di tamponi nasali (2 per ciascuno) che permetteranno di stabilire la contagiosità dei singoli pazienti, in modo da poter permettere ai soggetti negativi un ritorno alla socializzazione e, soprattutto, alla visita di qualche familiare.

Ma non è facile affatto effettuare tamponi a questi nonnini, perché il test è quantomeno parecchio fastidioso e, se oggi siamo riusciti a tamponare QUASI tutti i pazienti programmati, non sarà certo facile convincerli a ripetere l’esame quando sarà necessario eseguire il successivo tampone (obbligatorio per la definizione completa di soggetto non contagioso).

Si susseguono quindi mini briefing decisionali, necessari ma non entusiasmanti, soprattutto perché questa non è la mia realtà territoriale e le risorse e capacità organizzative sono ben diverse da quelle della mia regione.

Qui quasi sempre alle parole si fanno seguire rapidamente i fatti, qui se mancano DPI lo dici alla direzione, e l’indomani mattina li trovi sul tavolo; se si pensa di organizzare un’ecografia dopo poche ore arriva il collega con l’ecografo portatile.

Qui i volontari della protezione civile distribuiscono due mascherine chirurgiche ad abitante al giorno, mentre a noi MMG laziali arrivano mail in cui ci viene pomposamente comunicato che la regione ci fornisce ben 7 (sette) mascherine chirurgiche a medico.

Ovviamente non è tutto oro quel che brilla: le beghe politiche e gli intrallazzi non mancano nemmeno a queste latitudini, ma in qualche modo qui si riesce a realizzare concretamente quasi tutto quello che ci si propone e che serve.

Ma, nonostante tutto, questa non è la mia terra, non è casa mia, e, anche se mi ha fatto indubbiamente piacere quando il collega responsabile oggi ha cercato un’ultima volta a convincermi a prolungare la mia assegnazione dicendomi che sono stata molto apprezzata a tutti i livelli, ringraziandolo gli ho detto che ho una vita strutturata da un’altra parte, e lui mi ha capito bene, e ci siamo salutati ripromettendoci di ritrovarci da queste parti durante una vacanza.

Così anche oggi, dopo le abituali 10-11 ore in struttura, sono tornata al mio alloggio come sempre, ma con la testa già verso casa.

 

17 aprile 2020 – Attenti alla testa!

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E oggi è stato il terzultimo giorno di lavoro qui ad Arco, e non è possibile non pensarci, nonostante una volta che ci siamo “vestiti” è come se ci si immerga in una realtà diversa, che vedi attraverso la maschera più o meno appannata dal sudore, con le voci soffocate dalla doppia mascherina, dove tutto odora di soluzioni alcoliche e clorate, dove riconosci gli operatori solo dagli occhi.

E a tutto questo mi sono abituata, anzi, quasi affezionata direi: ormai conosco tutti gli ospiti con il loro nome di battesimo, alcuni di loro mi riconoscono, con tutti riesco a parlare.

Solo con la signora A.M., tracheostomizzata, purtroppo, non riesco a parlare bene come prima, perché sta vivendo giornate difficili, in quanto due giorni fa ha avuto bisogno di molte aspirazioni dalla cannula per secrezioni troppo abbondanti.

Da allora, nonostante la situazione sia nettamente migliorata, è diventata terribilmente ansiosa perché impaurita di poterci ricadere, con la conseguente sensazione di soffocamento terribile che non le permette di scandire bene le parole.

Tra l’altro, essendo un a persona molto presente e consapevole, ha colto che la sua eco toracica di ieri non è andata bene (ha parecchie lesioni pleuroparenchimali), e ovviamente questo la impaurisce ulteriormente, anche se le abbiamo spiegato che con la terapia cortisonica che ha iniziato stiamo cercando di limitare il più possibile gli eventuali danni permanenti.

Comunque la situazione in reparto è molto più tranquilla, e oggi siamo finalmente riusciti ad azzerare le prescrizioni di ossigeno: non ci sono più bombole, concentratori, mascherine, cannule in giro, e anche gli infermieri sono molto meno carichi di lavoro, tanto che oggi ho avuto di nuovo il piacere “lussuoso” di avere una bravissima infermiera che mi ha assistito durante la visita!

La guardia è ancora alta: tutto il personale non può girare nell’istituto senza le protezioni, le soluzioni idroalcoliche sono onnipresenti come le confezioni di guanti monouso, la mascherina si toglie esclusivamente a mensa durante il pasto, dove sediamo una sola persona per tavolo da 4.

I pazienti sono comunque sottoposti ad analisi settimanali per monitorare l’andamento dell’infezione, oltre che a tamponi a tappeto, allo scopo di individuare le persone realmente e definitivamente guarite e non contagiose, per poterle isolare e dar loro una maggiore libertà.

Molto importante è stato anche il rientro in reparto di una delle fisioterapiste, molto in gamba, che ha iniziato subito la mobilizzazione attiva dei soggetti che stanno meglio, e anche questo è un segno importantissimo di vera ripresa, anche perché molti pazienti l’hanno riconosciuta e hanno subito cominciato a chiedere: “ma alura l’è finì la malatia?”, ma qualcuno si è intristito perché non ha visto arrivare i familiari…

La strada è ancora lunga e difficile, forse però, FORSE, possiamo cominciare a rialzare la testa, ma dobbiamo stare attenti a muoverci con cautela, sennò rischiamo di sbatterla, la testa!

Spogliandoci non possiamo non parlare della prossima partenza, e subito viene la paura dell’esito del tampone di controllo che faremo il giorno prima: se fosse malauguratamente positivo, non sappiamo ancora se ci faranno tornare a casa o se dovremo passare qui la quarantena.

Questo ci spaventa e anche se cerchiamo di essere ottimisti, rassicurandoci a vicenda sull’attenzione che abbiamo prestato alla nostra protezione, ognuno di noi sa che qualche volta è stato impossibile osservare con massimo scrupolo tutti gli innumerevoli passaggi teorici del biocontenimento, e l’ansia si fa strada.

Poi arriva la telefonata dell’ennesimo funzionario della Protezione Civile per la precisazione degli ultimi dettagli sulla prossima partenza, che, alla mia domanda sulle modalità di rientro in caso di positività del tampone, è stato molto evasivo: “sa dottoressa, sono un po’ cambiate le regole a riguardo da quando siete partiti, molte Regioni e Comuni non accettano che la quarantena venga fatta nel proprio domicilio…”, ma non ci voglio né posso pensare.

Poi arriva la notizia che domani arriveranno in reparto gli altri due colleghi che ci sostituiranno, e ho un piccolo moto d’insofferenza al pensiero che la giovane collega V. verrà affiancata da un altro medico, che i “miei” vecchini vedranno una maschera nuova, ma so che è giusto così, spero solo di non far trapelare troppo questi pensieri durante la visita che farò con i nuovi colleghi.

E concludo la giornata lavorativa con la telefonata ormai quotidiana al marito di M.L., per riferirgli dei progressivi miglioramenti della moglie, che mangia ormai bene a tutti i pasti, quasi da sola, e che, se i tamponi che farà prossimamente saranno negativi potremo rimandarla a casa come desidera tanto la sua famiglia… non nego che è stata uno dei miei migliori “successi” in questa esperienza, il cui ricordo mi aiuterà, spero, a riuscire a fare sempre meglio il mio lavoro.

 

18 aprile 2020 – Arrivano i rinforzi

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Oggi sono arrivati i colleghi della task force della Protezione Civile che ci sostituiranno e con la collega del mio “plotone” abbiamo deciso di non salire ai reparti perché stiamo cercando di mantenerci il più possibile “pulite” in vista del tampone di controllo che effettueremo lunedi mattina.

Se malauguratamente dovessimo risultare positive, il nostro rientro sarebbe sicuramente molto più difficile e complicato, non essendoci regole univoche.

Così abbiamo fatto un rapido excursus dei pazienti presenti ai nuovi colleghi, che si sono poi vestiti ed insieme ai giovani hanno fatto il solito giro visita, mentre noi siamo rimaste in sala medici ad aggiornare cartelle, prescrivere analisi, controllare terapie e riordinare tutte la documentazione di ciascun paziente in vista della molto probabile prossima visita delle forze dell’ordine.

Lavoro questo non certo entusiasmante ma sicuramente utile e doveroso, che dovremo continuare anche domani, per riuscire a lasciare i colleghi in una situazione di relativa tranquillità.

Il loro giro visita è durato abbastanza a lungo, ma pensavamo fosse normale per la “presentazione” dei pazienti ai nuovi colleghi, ma questa è stata la spiegazione solo in parte: oggi, dopo due giorni di calma, si sono riaffacciate febbri impreviste (fino a 38.7), tutte in soggetti già trattati per covid, per le quali non è stato facile decidere che terapia adottare.

Alla fine abbiamo richiesto esami urgenti per domani (sperando che li facciano anche di domenica, vista l’urgenza) e di temporeggiare per oggi con antifebbrili.

Una bella doccia fredda, anche e soprattutto perché se si trattasse ancora di covid starebbe ad indicare la possibilità di reinfezione nonché la scarsa efficacia protettiva degli anticorpi sviluppati nella prima infezione di circa un mese fa.

Speriamo si tratti di febbri di altra origine; adesso, rispetto ad un mese fa, ci possiamo permettere questo ”lusso”, ma anche perché non so se, in caso di reinfezione covid, questi organismi anziani così fragili potrebbero ulteriormente resistere senza supporti respiratori.

Comunque domani li tamponeremo pure, ma i risultati non arriveranno prima di mercoledi, e la terapia va iniziata prima, soprattutto in caso di covid; domani valuteremo, ma la paura che il virus non sia affatto sedato è palpabile.

Per fortuna la maggior parte degli operatori tamponati finora è risultato negativo, nonostante le previsioni funeste (questo è sicuramente dovuto ai rapidi arrivi ed utilizzi dei DPI che la Provincia di Trento non ha fatto mancare dopo i primi giorni di esplosione dell’epidemia), e quindi il team infermieristico è abbastanza numeroso, come anche quello degli OSS, e questo permette un a sorveglianza ed una pianificazione degli interventi necessari migliore, ma fa anche capire che forse ci siamo “allargati” un po’ troppo nei programmi su un prossimo ritorno alla “normalità”.

E se tanto mi dà tanto, se qui, nonostante la guardia sia ancora ai livelli massimi il virus avesse di nuovo alzato la testa, che succederà fuori quando si passerà alla cosiddetta “fase due”?

Certo, ora la consapevolezza del pericolo è maggiore, ma nell’Italia centro-insulare questo è vero solo in parte, perché la strage da virus è stata meno palpabile, ed è comprensibile che tutti abbiano voglia e bisogno di uscire.

Questa prospettiva però mi spaventa non poco, perché la situazione pandemica attuale è una novità assoluta per tutti, e non siamo affatto preparati a fronteggiarla in nessun senso, ma dobbiamo comunque farlo.

Intanto le giornate si allungano, e quando rientro c’è ancora una bella luce e fa anche caldino, tanto da dovermi togliere il piumino con cui sono arrivata qui (unico soprabito portato), e solo allora mi sembra che mi sia cambiato il mondo sotto gli occhi in modo impalpabile in queste tre settimane, senza quasi che me ne sia resa conto.

E’ una calda primavera adesso, era la fine dell’inverno 3 settimane fa, tutto è cambiato, ma mi sento un osservatore estraneo a questo cambiamento, come se non potessi prenderne parte, perché in realtà la mia realtà è diversa da quella che vedo intorno a me e ho paura che la realtà di tutti non potrà non essere imperniata su questo maledetto virus ancora per un bel po’.

Ma, come ho già detto, non c’è paura senza speranza, e speriamo che domani possa raccontarvi di questi pazienti in termini positivi ed ottimistici!

 

19 aprile 2020 – Ultimo giorno

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E così è finita anche questa “avventura”. Oggi è stato l’ultimo giorno di lavoro in RSA: domattina alle 8 tampone nasale di controllo (con conseguente divieto di lavoro successivo) e, in caso di risultato negativo, martedi rientro a domicilio.

Questi 20 giorni adesso mi sembrano volati, anche se stamattina mi è pesato un po’ andare: ho sempre più voglia di casa quando sono da sola in questo monolocale.

Poi però una volta arrivata lì il lavoro mi prende tanto che alla fine della giornata ci siamo guardate in faccia con la collega partita con me e abbiamo detto contemporaneamente: ”ma lo sai che mi dispiace andarmene?”

Anche perché anche oggi, nonostante non abbiamo partecipato alla visita (sempre nel tentativo estremo di non contaminarci in vista del tampone di domani), il lavoro non è mancato.

Sono arrivati i risultati dei 13 tamponi nasali fatti ai pazienti sierologicamente positivi, e 3 sono risultati positivi, segno che il virus è ancora ben presente nelle mucose delle vie respiratorie.

Una delle pazienti positive aveva anche un rialzo febbrile, e comunque a tutti e tre abbiamo iniziato il protocollo terapeutico anticovid, spostandole subito dal piano “pulito” a quello dei pazienti più compromessi per poterle meglio monitorare.

Ma siccome le sorprese sono costanti e continue, oggi abbiamo avuto anche una polmonite ab ingestis che i colleghi in reparto sono riusciti a stabilizzare con vari interventi farmacologici d’urgenza (anche se qui di attrezzatura d’urgenza non c’è nulla, a parte un po’ di cortisone parenterale) e anno poi inviato in Pronto Soccorso per un controllo più approfondito e tranquillo.

Per questo episodio V.,la mia giovane collega, si è molto spaventata (comprensibile), ma il nuovo medico della Protezione Civile arrivato ieri ha gestito benissimo la situazione nei tempi e nei modi, e questo mi tranquillizza molto, perché adesso so che V. non ha nulla da temere con la mia partenza.

Naturalmente oggi è anche stato un susseguirsi di saluti, sempre a debita distanza e con debite mascherine, e mi è dispiaciuto non poter abbracciare veramente alcuni operatori sanitari, direttrice sanitaria compresa, ma a tutti ho promesso di tornare in questo paese per una bella vacanza, quando potremo incontrarci a viso finalmente scoperto, liberi di andare dove si vuole e quando si vuole, ma adesso sembra un miraggio.

Naturalmente l’incontro per i saluti con la direttrice è stata anche un’occasione per aggiornamenti sui pazienti e per pianificare i passi della prossima settimana, e mi sono dovuta forzare per non intervenire nel briefing più di tanto, ricordandomi che “tanto qui non ci lavorerò più da domani”.

Questo mi è sinceramente dispiaciuto, anche perché qui le parole sono meno inconsistenti e si traducono in fatti molto più spesso e velocemente che alle latitudini di casa mia: con un giro di telefonate oggi la direttrice è riuscita ad assicurare alla struttura l’arrivo di un apparecchio ecografico, che permetterà al nuovo collega arrivato, radiologo, di effettuare le importantissime eco toraciche nei pazienti covid sospetti, accelerando e precisando le diagnosi e le terapie, e tutto questo dopo solo 24 ore dall’arrivo del collega e di domenica addirittura!!

Ci proverò, come sempre ho fatto, a portarmi dietro il più possibile questo spirito di concretezza, fattività e poca demagogia della gente di questa zona, cosa abbastanza facile per me, che di carattere sono già tendenzialmente così, ma sicuramente difficile da tradurre in fatti dalle nostre parti, ma chissà che questa pandemia non riesca a far cambiare un po’ le cose.

Oggi ho dato anche una mano ad informare i familiari dei pazienti con tampone negativo del buon risultato del test e tutti, immancabilmente, mi hanno chiesto se e quando potranno allora tornare a trovare i loro cari, e ho dovuto faticare non poco per arginare questo comprensibile entusiasmo, ricordando loro che la negatività del tampone, seppure con la positività sierologica, rende i pazienti ancora più delicati, perché il pericolo di reinfezione in caso di contatti a rischio è concreto e anche pericoloso, perché con le loro visite potrebbero veicolare il virus a loro insaputa.

E naturalmente questo scenario è lo stesso che si verificherà a livello mondiale se la prossima “fase 2”, che tutti auspichiamo a breve, non saranno effettuati interventi diagnostici di massa e applicati sistemi di tracciamento seri, soprattutto se si allenteranno troppo le misure igieniche e di distanziamento sociale.

Ma la percezione del pericolo è ancora oggi, e anche nella stessa RSA, nettamente inferiore a quella necessaria per prestare sempre l’attenzione indispensabile al biocontenimento: fra gli operatori sanitari la notizia della negatività dei loro tamponi ha generato in alcuni una sconsiderata allegria e leggerezza di comportamento.

Quindi questo significa che tutte le sedute di istruzione nell’uso corretto dei DPI, tutte le raccomandazioni continue e tutti gli esempi che cerchiamo di dare in modo efficace vengono superati e dimenticati dal desiderio di un gesto normale come quello, ad esempio, di fumare una sigaretta, non appena si allenta un po’ la tensione.

Questo mi lascia alquanto perplessa: se basta qualche risultato buono per allentare la tensione (e l’attenzione), cosà accadrà quando si riapriranno le attività produttive e si comincerà a vivere più o meno normalmente?

Non c’è ancora una cura per questa malattia, nonostante i vari protocolli di volta in volta proposti, ed il vaccino è ancora di là da venire.

La fase acuta sembra finita, lo Tsunami è arrivato e ha travolto tutto e ora l’acqua sembra più calma. Ma dopo l’onda c’è sempre la risacca e spesso quando l’acqua si ritira, fa più danno di quando arriva.

Nei prossimi mesi ci dovremo aspettare altri casi, altri focolai, magari non così eclatanti come sono stati quelli di questi due mesi, ma ugualmente pericolosi. Non abbassiamo la guardia, non ci distraiamo: finché non avremo il vaccino, il CoV-2 è sempre lì pronto a colpire.

 

20 aprile 2020 – La seconda telefonata

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Oggi non ho lavorato, e questo non mi è piaciuto, ormai stare qui è inscindibile dall’andare in reparto, ma stamattina abbiamo dovuto fare il tampone di controllo, dopo il quale è assolutamente vietato lavorare finchè non se ne conosce l’esito: se positivo si va in quarantena (…non ci voglio pensare..) se negativo si torna a casa.

Dopo aver fatto il tampone, stavolta solo nasale, ma in entrambe le narici e parecchio più fastidioso dei precedenti, ci siamo fermate un po’ con i colleghi, partecipando ancora una volta alle discussioni su quello che era successo nella serata a qualche paziente, era inevitabile, stare là dentro e parlare dei fatti propri non viene proprio spontaneo.

Così ho saputo che la signora M.L., che avevamo considerato un nostro successo per averla fatta riprendere abbastanza da alimentarsi bene e da sola, e che ieri era stata portata in ospedale per sospetta polmonite ab ingestis, è in realtà risultata positiva al tampone e alla sierologia covid.

La polmonite ipotizzata c’era, ma la cosa peggiore è stata che con la TAC torace si è scoperto un molto probabile carcinoma esofageo; una diagnosi già di per sé brutta, ma in un soggetto così fragile e defedato come lei terribile!

Mi spiace veramente, perché dietro la sua intolleranza e ritrosia ero riuscita ad intravedere uno spiraglio per migliorare veramente la sua situazione, ma evidentemente il suo destino era diverso…

Poi, mentre eravamo ancora a mensa, il laboratorio dell’ospedale di Trento che si occupa della lavorazione dei tamponi per covid chiama il caposala per dirgli che non trovavano più i nostri tamponi: panico totale!

medico volontario
Questa è “la Valentina”, oggi…

Già mi vedevo trattenuta qui per dover rifare il tampone aspettando quindi almeno un giorno in più, ma il fantastico caposala con qualche telefonata è riuscito a far ritrovare il nostro materiale, che hanno però cominciato a lavorare alle 15, e quindi, essendo i tempi tecnici di 6 ore, siamo ancora qui ad aspettare la risposta.

E qui non è fantastico solo il Caposala, ma tutti i colleghi, gli infermieri e gli Operatori Sanitari che hanno dato tutto ed il meglio di se.

Un po’ mi dispiace lasciarli, ma mi sono ripromessa di venire a trovarli in una vacanza di chissà quando, senza distanziamenti e senza mascherine: chissà se ci riconosceremo senza…!

Non sono paziente (non per niente faccio il medico ahahah) e questa attesa e l’incertezza dell’esito mi caricano di ansia, ma non ho scelta, devo solo aspettare: chissà se domani potrò veramente salire sul treno prenotato per Roma…

Stavolta la telefonata arriva attesa e desiderata e leggera come una piuma: il tampone è NEGATIVO!!

Domani si torna a Roma, si torna a casa, un po’ stanca ma con un bagaglio di esperienze irripetibili, che mi hanno arricchito professionalmente ma soprattutto umanamente e che danno un significato vero alla professione che scelsi tanti anni fa e che mi onoro di continuare a svolgere.

 


Dottoressa Ada Maria VetereUn grazie di cuore a tutti voi per avermi sostenuto ed incoraggiato in questa splendida avventura.
Un grazie particolare a tutti i colleghi, gli infermieri, gli Operatori Sanitari ed il personale della Fondazione Comunità di Arco che mi hanno fatto sentire “a casa”.
Ma il grazie più grande va a tutti quei colleghi, infermieri, operatori sanitari che non hanno esitato a dare la vita per aiutare gli altri.