Ipertensione arteriosa: sintomi, diagnosi e terapia

Ipertensione arteriosa: sintomi, diagnosi e terapia

Introduzione

L’ipertensione arteriosa è una delle più comuni patologie incontrate nella pratica clinica ed una delle malattie con maggiore incidenza nei Paesi industrializzati.

Data la crescente consapevolezza del suo ruolo come fattore di rischio cardiovascolare maggiore, l’ipertensione arteriosa costituisce attualmente uno dei principali motivi di prescrizione farmacologica; nonostante ciò, molti pazienti non riescono ad ottenere un buon controllo dei valori pressori e quindi l’ipertensione arteriosa è responsabile di una elevata morbilità e mortalità, anche perché spesso decorre senza sintomi.

Nonostante l’arbitrarietà delle suddivisioni legata alla sua variabilità, si parla di ipertensione arteriosa in presenza di una pressione arteriosa sistolica (PAS) (comunemente nota come pressione arteriosa massima) uguale o superiore a 140 mmHg ed una pressione diastolica (PAD) (comunemente nota come pressione arteriosa minima) uguale o superiore a 90 mmHg.

L’importanza della diagnosi e del trattamento dell’ipertensione arteriosa risiede nella riduzione del rischio cardiovascolare e delle altre complicanze correlate.

Infatti la presenza di una relazione lineare tra rischio cardiovascolare e valori pressori è ampiamente riconosciuta. Tale rischio ha valore predittivo, è indipendente ed è continuo.

Per questi motivi, è utile seguire la classificazione dei valori pressori e dell’ipertensione espressa dalla European Society of Cardiology (ESC) e dalla European Society of Hypertension (ESH) nel 2013 (Tabella 1).

Ipertensione arteriosa: classificazione  Questi criteri sono validi per soggetti di età superiore a 18 anni e derivano dalla media di due o più misurazioni.

Quando la PAS e la PAD ricadono in due differenti categorie, la scelta terapeutica viene effettuata considerando la categoria più alta.

Una corretta misurazione della pressione arteriosa, prevede che il paziente sia seduto comodamente e che non abbia fumato o ingerito caffeina da almeno 30 minuti. Bisogna sempre utilizzare un bracciale di misura adeguata (la camera d’aria presente all’interno del bracciale dovrebbe coprire almeno l’80% della circonferenza del braccio).

Se non è disponibile uno sfigmomanometro a mercurio, è accettabile l’uso di sfigmomanometri aneroidi calibrati o strumenti elettronici.

Si gonfia il bracciale finché non si sente più il tono arterioso, poi si sgonfia lentamente: il primo tono udibile indica il valore di PAS e la sua scomparsa indica la PAD.

Sarebbe opportuno rilevare due o più misurazioni a distanza di 2 minuti una dall’altra ed effettuare una media. In particolari condizioni, come nei pazienti anziani, malati o sintomatici, la pressione arteriosa dovrebbe essere misurata sia in ortostatismo (in piedi) che in clinostatismo (sdraiati).

Valutazione iniziale del paziente con ipertensione arteriosa di recente insorgenza

L’inquadramento del paziente con ipertensione arteriosa comprende la valutazione della funzionalità degli organi bersaglio e l’individuazione del danno d’organo, l’identificazione di fattori di rischio o di patologie concomitanti, ed il rilievo di cause secondarie di ipertensione arteriosa.

Un’anamnesi accurata è di estrema importanza e deve includere i seguenti punti: storia familiare di ipertensione, malattie renali, malattie cardiache, ictus, dislipidemia e disordini endocrino-metabolici; durata e gravità dell’ipertensione, presenza di sintomi diinsufficienza coronarica, insufficienza cardiaca, malattia cerebrovascolare, vasculopatia periferica, e diabete; anamnesi fisiologica comprendente il consumo di tabacco o di alcool; l’assunzione alimentare di sodio, potassio e grassi; notizie sulla eventuale assunzione di sostanze illecite che potrebbero innalzare i valori pressori; storia psico-sociale; risultati ed effetti di terapie antipertensive precedenti o in atto; alterazioni della sfera sessuale; sintomi suggestivi per ipertensione arteriosa secondaria.

L’esame clinico dovrebbe comprendere:

  • la corretta misurazione della pressione arteriosa in accordo alle raccomandazioni precedentemente riportate;
  • la determinazione del peso corporeo e della circonferenza addominale;
  • l’esame del fondo oculare al fine di valutare la presenza di una retinopatia ipertensiva;
  • la ricerca di una vasculopatia carotidea o periferica;
  • l’esame cardiopolmonare completo;
  • la valutazione della funzione endocrina e neurologica;
  • l’esame dell’addome per l’individuazione di soffi vascolari o segni di un aumento del volume renale;
  • l’esame dell’estremità per il rilievo di vasculopatia, artrite o edema.

La Tabella 2 permette la corretta valutazione del rischio cardiovascolare del paziente, sulla base dei valori pressori e dei fattori di rischio concomitanti.

Tabella 2: Valutazione del rischio cardiovascolare

 

Ipertensione arteriosa: valutazione del rischio cardiovascolare nelle donne

Nei pazienti con ipertensione labile o incostante, o in cui si rilevi una consistente discrepanza tra le varie letture, è indicato il Monitoraggio Pressorio delle 24 ore (noto anche come Holter Pressorio) al fine di documentare la gravità dell’ipertensione o la sua variabilità.

In alcuni pazienti, può essere utile controllare la pressione arteriosa a domicilio, al fine di valutare l’efficacia della terapia ed individualizzare il trattamento. Quando vi sono dubbi sull’accuratezza delle determinazioni, queste andranno confrontate con le rilevazioni eseguite con uno sfigmomanometro a mercurio.

I rilievi ottenuti al di fuori dell’ambulatorio medico possono fornire informazioni sull’accuratezza dei valori riscontrati e possono essere usate per valutare la risposta alla terapia e per migliorare l’aderenza del paziente ai programmi terapeutici.

Anche se lo sfigmomanometro a mercurio assicura risultati più affidabili, spesso non è proponibile un suo utilizzo domiciliare, ed in questi casi viene ritenuto accettabile l’uso di uno sfigmomanometro aneroide o di sistemi elettronici.

Valutazione strumentale iniziale

Nella valutazione e nel trattamento iniziale dei pazienti con ipertensione arteriosa sono consigliati alcuni esami di “routine”.

Questi comprendono un emocromo completo; il profilo chimico; elettroliti, glicemia, assetto lipidico ed un elettrocardiogramma.

A seconda della situazione clinica possono essere richiesti altri esami, quali la clearance della creatinina, la ricerca di microalbumina, la valutazione della funzione tiroidea e l’ecocardiogramma.

Ulteriori analisi sono indicate quando vi è il sospetto di una causa secondaria (identificabile) di ipertensione arteriosa.

Terapia dell’ipertensione arteriosa

L’approccio al trattamento dell’ipertensione arteriosa dovrebbe essere basato sulla stratificazione del rischio proposta dalla ESC e dalla ESH nel 2013 (Tabella 3).

Tabella 3: Trattamento della Ipertensione arteriosa

Ipertensione arteriosa: indicazioni al trattamento

L’obiettivo terapeutico è la prevenzione delle complicanze e la riduzione della morbilità e della mortalità ad essa associate.  Questo si ottiene mantenendo la PAS al di sotto dci 140 mmHg e la PAD al di sotto dei 90 mmHg.

I risultati dello studio HOT (Hypertensioin Optimal Treatment) suggeriscono che un’ulteriore riduzione della PAD a valori uguali o inferiori agli 80 mmHg, può avere un effetto fortemente cardioprotettivo, specialmente nei pazienti diabetici.

Oltre al controllo pressorio, vanno ovviamente controllati ed eliminati o ridotti i fattori di rischio concomitanti.

Nella maggior parte dei pazienti con ipertensione arteriosa non complicata, la prima fase del trattamento prevede una modificazione dello stile di vita.

Anche se ci rendiamo conto che un tale approccio può non essere sufficiente, esso integra gli effetti dei farmaci antiipertensivi.

Interventi non farmacologici

Gli interventi non farmacologici di seguito riportati, utilizzati singolarmente o in associazione, sono risultati efficaci nel trattamento dell’ipertensione.

Limitazione dell’assunzione di sodio: l’assunzione di sodio è stata messa in relazione ai livelli pressori e sono numerosi gli studi prospettici che hanno dimostrato l’efficacia delle diete iposodiche nel trattamento dell’ipertensione.

Molti trial clinici hanno rilevato che una diminuzione di 2,3 gr. nell’assunzione sodica è in grado di ridurre i valori pressori in tempi variabili. Anche minime restrizioni offrono benefici terapeutici e riducono la necessità di alti dosaggi di antiipertensivi.

Alcuni studi hanno evidenziato che una minore assunzione di sodio compensa l’ipokaliemia da diuretico, limitando la quantità di sodio disponibile per lo scambio con il potassio a livello del tubulo renale distale.

I cibi conservati contengono grandi quantità di sodio e perciò i pazienti dovrebbero essere adeguatamente informati.

Riduzione del peso corporeo: L’obesità (indice di massa corporea >27) è correlata ad un incremento dei valori pressori ed è associata al diabete, alla dislipidemia ed alla mortalità coronarica.

La riduzione del peso corporeo determina una diminuzione della pressione arteriosa nei soggetti obesi ed ipertesi e può migliorare l’efficacia dei farmaci. Perciò, i pazienti ipertesi in sovrappeso dovrebbero essere invitati a ridurre l’assunzione calorica ed ad incrementare l’attività fisica.

Attività fisica: La pressione arteriosa può essere ridotta tramite l’esercizio fisico continuativo, come il cammino a passo svelto (5-6 Km/h) per 20-40 minuti al giorno. Una attività fisica intensa (circa il 50% del consumo massimo di ossigeno) può determinare importanti diminuzioni dei valori pressori.

L’esecuzione di una regolare attività fisica riduce la pressione arteriosa, facilita la perdita di peso e modifica i fattori di rischio cardiovascolari.

Limitazione nell’assunzione di alcool: L’eccessivo consumo di bevande alcoliche è un importante e diffuso fattore di rischio per l’ipertensione e può anche diminuire l’efficacia dei farmaci antiipertensivi.

È necessario invitare chiaramente i pazienti ipertesi a limitare l’assunzione giornaliera di alcolici, che non deve superare i 30 ml di etanolo (729 ml di birra o 300 ml di vino). Le donne assorbono una maggiore quantità di alcool rispetto agli uomini, perciò la loro assunzione non dovrebbe superare i 15 ml di etanolo al giorno.

Queste quantità non hanno effetti negativi sul controllo pressorio e possono addirittura esercitare un’azione protettiva sull’apparato cardiovascolare.

Assunzione di potassio: Un’inadeguata assunzione di potassio può determinare un innalzamento dei valori pressori ed una dieta ad alto contenuto in potassio può migliorare il controllo pressorio.

I pazienti dovrebbero quindi essere incoraggiati ad assumere sufficienti dosi di potassio (da 2 a 3 gr. al giorno), possibilmente provenienti dagli alimenti. L’ipokaliemia da diuretici dovrebbe sempre essere prevenuta o trattata.

Assunzione di magnesio e calcio: Sebbene non vi siano prove definitive circa la correlazione tra magnesio e regolazione della pressione arteriosa, sappiamo che l’ipomagnesiemia può essere pericolosa nei pazienti con malattie cardiovascolari e deve essere evitata.

Analogamente non vi sono evidenze conclusive sulla relazione calcio-pressione arteriosa tali da giustificare delle precise indicazioni terapeutiche. Tuttavia l’assunzione di calcio è raccomandata in gravidanza e nelle condizioni di ipocalcemia.

Considerazioni varie: Poiché non esistono dati conclusivi sull’efficacia degli acidi grassi omega 3 o di supplementi proteici nel trattamento dell’ipertensione arteriosa, non è possibile formulare alcuna raccomandazione sull’uso di questi composti.

Le tecniche di biofeedback e di rilassamento hanno raccolto pareri contrastanti, ma certamente possono essere di aiuto in alcuni pazienti.

I fumatori presentano un alto rischio cardiovascolare cd inoltre in questi soggetti le terapie farmacologiche non offrono la stessa protezione. Tutti i soggetti ipertesi dovrebbero essere incoraggiati ad abolire il fumo.

Tutti i pazienti affetti da ipertensione arteriosa dovrebbero essere educati a modificare il proprio stile di vita, come discusso precedentemente, anche se la maggior parte di loro, prima o poi necessiterà anche della terapia farmacologica.

Nei pazienti con ipertensione grave o complicata, gli interventi igienico-dietetici non dovrebbero far ritardare l’introduzione della terapia farmacologica.

Terapia farmacologica dell’ipertensione arteriosa

Vi è ormai un generale accordo e vi sono evidenze schiaccianti sul fatto che il trattamento antipertensivo riduce la morbilità e la mortalità cardiovascolare.

È stato inequivocabilmente dimostrato che la terapia farmacologica ha un effetto protettivo sulla comparsa di insufficienza cardiaca, di eventi coronarici, di ictus cerebrale e sulla progressione della malattia renale. Inoltre un trattamento istituito precocemente previene la progressione verso forme ipertensive più gravi.

Il controllo della pressione arteriosa ha effetti positivi in tutti i tipi di pazienti, indipendentemente dall’età, dalla razza o dal sesso.

Considerazioni generali

La maggior parte dei farmaci presenta simile efficacia antiipertensiva. Solo i vasodilatatori diretti come l’idralazina ed il minoxidil vengono sconsigliati per la monoterapia iniziale.

Il trattamento dovrebbe utilizzare bassi dosaggi, che in seguito devono essere aumentati in base alla risposta clinica ed alle necessità del paziente.

Teoricamente andrebbe scelto un preparato a lunga durata di azione al fine di favorire la compliance del paziente ed il mantenimento di un profilo pressorio uniforme: un improvviso picco ipertensivo nelle prime ore del mattino può determinare la comparsa di eventi ischemici cardiaci e cerebrovascolari; perciò è essenziale assicurare un adeguato controllo dei valori pressorio nelle 24 ore.

L’associazione di due farmaci diversi a basse dosi sembra poter offrire un eccellente controllo, con una minima incidenza di effetti collaterali. Per esempio, basse dosi di diuretico possono aumentare l’efficacia terapeutica delle altre classi di antiipertensivi.

Circa il 60% degli ipertesi risponde ad un qualsiasi farmaco, tuttavia la risposta di ogni singolo paziente non è prevedibile e quindi il trattamento deve essere individualizzato.

Se non si ottiene alcuna risposta con dosi adeguate di un farmaco, si può sostituirlo con un altro. Questo “approccio sostitutivo” è preferibile al vecchio approccio a gradini, ma se otteniamo una risposta terapeutica parziale con il primo farmaco, dobbiamo aggiungerne un secondo (o un terzo) in modo sequenziale.

Come precedentemente sottolineato, l’obiettivo della terapia è quello di raggiungere e mantenere valori di pressione arteriosa sistolica uguali o inferiori a 140 mmHg e valori diastolici uguali o inferiori a 90 mmHg.

Nella pratica clinica, se la pressione arteriosa viene ridotta gradualmente, l’ipoperfusione tissutale diventa un evento improbabile, tuttavia bisogna sempre evitare un brusca riduzione dei valori pressori, a meno che non sussista una situazione di emergenza.

I pazienti con danno d’organo devono essere trattati aggressivamente, al fine di evitare la progressione delle complicanze correlate alla malattia.

Questo è particolarmente importante nei soggetti con nefropatia diabetica e negli individui con nefrosclerosi.

Nei pazienti anziani con ipertensione arteriosa sistolica isolata o con valori sistolici marcatamente elevati l’obiettivo del trattamento deve essere un valore sistolico uguale o inferiore a 140 mmHg.

Sebbene la risposta ad un determinato farmaco sia comunque scarsamente prevedibile, i pazienti anziani sembrano essere più sensibili ai diuretici ed ai calcio antagonisti, rispetto agli inibitori del sistema renina-angiotensina.

Tuttavia se riteniamo più vantaggioso utilizzare un beta-bloccante, un ACE-inibitore o un antagonista dei recettori dell’angiotensina, in questi soggetti possiamo potenziare l’efficacia di questi farmaci aggiungendo un diuretico o limitando l’assunzione di sodio.

Indipendentemente dallo schema terapeutico adottato, dobbiamo porre molta attenzione alla qualità di vita, ai costi, alle patologie concomitanti ed ai fattori di rischio, nonché alle conseguenze sulla funzione degli organi bersaglio.

Prima di prescrivere un farmaco, il medico dovrebbe essere a conoscenza delle possibili interazioni con le altre terapie concomitanti, cosa che non deve mai essere sottovalutata.

Scelta del farmaco iniziale

Come già sottolineato, la maggior parte dei farmaci ha un effetto antiipertensivo sovrapponibile ed offre importanti benefici alla maggior parte della popolazione trattata.

Anche se le linee guida del JNC sostengono che i diuretici ed i beta-bloccanti dovrebbero essere i farmaci di prima scelta, è condivisibile l’idea secondo cui altre classi farmacologiche possono essere utilizzate per prime.

Sebbene i più grandi trial clinici abbiano dimostrato che le terapie con diuretici e beta-bloccanti hanno un effetto protettivo riguardo allo stroke ed alle complicanze cardiovascolari, si ritiene che anche altre classi come ad esempio gli ACE- inibitori e gli inibitori dei recettori dell’angiotensina possano offrire dei vantaggi, determinati dal loro meccanismo di azione, dai loro effetti metabolici o dalla loro azione protettiva sugli organi bersaglio.

La scelta deve quindi essere individualizzata e deve basarsi sulle caratteristiche demografiche del paziente, sul suo profilo di rischio, sulle condizioni o patologie concomitanti, sulle abitudini di vita e sulla situazione professionale.

Diuretici

I diuretici ed in particolare i tiazidici, sono stati ampiamente utilizzati nel trattamento dell’ipertensione arteriosa. Sebbene la loro importanza sia stata in parte ridimensionata dall’introduzione di altre classi farmacologiche, essi sono tuttora comunemente usati nella pratica clinica, sia in monoterapia che in associazione.

I pazienti affetti da patologie edemigene, quali lo scompenso cardiaco o l’insufficienza renale richiedono frequentemente l’uso del diuretico per ottenere un adeguato controllo pressorio.

L’effetto antiipertensivo compare con le dosi più basse, che presentano una debole, ma efficace azione natriuretica; dosi maggiori dovrebbero essere evitate per il rischio di un’eccessiva riduzione della volemia, disturbi elettrolitici ed altri effetti collaterali di ordine metabolico.

Dovrebbero essere utilizzati dosaggi alti solo in particolari condizioni cliniche, quali le forme di ipertensione gravi o resistenti alla terapia, l’insufficienza cardiaca congestizia, l’insufficienza renale e l’edema.

Inizialmente i diuretici determinano una riduzione della portata cardiaca, ma a lungo andare le resistenze vascolari periferiche si riducono.

Nei pazienti con una normale funzione renale è preferibile usare un diuretico tiazidico, mentre i diuretici dell’ansa (ad es., torasemide o furosemide) dovrebbero essere utilizzati in presenza di insufficienza renale.

I diuretici possono essere usati come monoterapia o in associazione ad altri farmaci.

I diuretici risparmiatori di potassio, come il triamterene o lo spironolattone associati ad un tiazidico possono ridurre la perdita di potassio causato da quest’ultimo.

I diuretici risparmiatori di potassio dovrebbero essere usati con estrema cautela, o non utilizzati affatto, nei pazienti con insufficienza renale o con altre patologie caratterizzate da una ridotta capacità escretiva del potassio.

Qualsiasi diuretico può causare effetti collaterali quali la disidratazione, l’ipokaliemia, l’iponatriemia, l’ipomagnesiemia, l’ipercalcemia, l’iperlipidemia e l’iperuricemia. Queste reazioni avverse possono essere causate dagli alti dosaggi utilizzati e devono indurre ad appropriati interventi correttivi.

Beta-bloccanti

I beta-bloccanti sono tuttora utilizzati per il trattamento dell’ipertensione arteriosa e della patologia coronarica. Il loro principale vantaggio è rappresentato dalla prevenzione secondaria nei pazienti con cardiopatia ischemica, una caratteristica non rilevata in nessun altra classe di antiipertensivi.

Sono disponibili un gran numero di farmaci che presentano più o meno la stessa efficacia antipertensiva.

Sebbene gli effetti emodinamici a breve termine dipendano prevalentemente dalla riduzione della portata cardiaca, la terapia cronica determina una diminuzione delle resistenze vascolari periferiche attraverso vari meccanismi, quali gli effetti anti-adrenergici, l’inibizione del rilascio della renina, l’azione sul sistema nervoso centrale e sul circolo periferico.

I beta-bloccanti differiscono tra loro per tre importanti caratteristiche farmacologiche: la liposolubilità, la cardioselettività e l’attività simpaticomimetica intrinseca.

I beta-bloccanti meno liposolubili e cardioselettivi presentano numerosi vantaggi. I betabloccanti con attività simpaticomimetica intrinseca determinano una minore riduzione della frequenza cardiaca ed una minore incidenza di broncospasmo.

Nei soggetti giovani e negli adulti, la terapia beta-bloccante, come monoterapia iniziale, rappresenta una scelta adeguata e contrariamente a quanto sostenuto in passato, è efficace anche nella popolazione anziana.

L’azione di questi farmaci viene potenziata dai diuretici ed in commercio esistono numerosi prodotti di associazione.

I betabloccanti sono necessari per controbilanciare la stimolazione cardiaca riflessa indotta dai vasodilatatori diretti, quali l’idralazina o il minoxidil.

Possono causare broncospasmo e non dovrebbero quindi essere utilizzati nei pazienti predisposti, come gli asmatici o i bronchitici cronici.

Tradizionalmente, una delle più importanti controindicazioni della terapia beta-bloccante era lo scompenso cardiaco, sebbene vari studi abbiano confermato la sua utilità anche in questa patologia.

I beta-bloccanti, specialmente se assunti ad alte dosi, possono determinare alterazioni del sistema nervoso centrale e disfunzioni sessuali. I composti non cardioselettivi possono interferire sfavorevolmente con il metabolismo lipidico.

Altri effetti indesiderati prevedibili sono la ridotta capacità di esercizio e la facile stancabilità.

Quando la terapia beta-bloccante viene interrotta bruscamente nei pazienti con cardiopatia ischemica è possibile un fenomeno di rebound con comparsa di angina.

Bloccanti dei recettori alfa-adrenergici

I bloccanti dei recettori alfa-1 rientrano nei farmaci raccomandati per il trattamento iniziale dell’ipertensione.

Sebbene non godano di molta popolarità, questi farmaci possono fornire alcuni vantaggi particolari, come il loro effetto positivo sul profilo lipidico e sulla insulino-resistenza.

Attualmente, oltre alla prazosina (farmaco a breve durata di azione) sono disponibili due composti a lunga durata di azione: il doxazosin e la terazosina. Questi farmaci bloccano il recettore alfa-1 adrenergico post-sinaptico, attenuando quindi la vasocostrizione indotta dalle catecolamine.

La riduzione della pressione arteriosa non è normalmente accompagnata da significative modificazioni della portata cardiaca o della frequenza cardiaca. La riduzione del precarico con il simultaneo blocco dei recettori alfa-1, previene la stimolazione simpatica osservata con i vasodilatatori diretti, quali il minoxidil e l’idralazina.

Questa classe farmacologica, per efficacia, compete con i diuretici ed i beta-bloccanti. Gli alfa-bloccanti possono essere associati ai diuretici, ai beta-bloccanti ed ai calcio-antagonisti.

La dose iniziale è pari ad 1 mg, da assumere preferibilmente la sera prima di andare a letto (per evitare l’ipotensione da prima dose) e può essere progressivamente aumentata nelle settimane successive.

Gli alfa-bloccanti hanno effetti postivi sul metabolismo lipidico e sull’insulino-resistenza e inoltre possono migliorare i sintomi dell’ipertrofia prostatica benigna.

Alfa- e beta-bloccanti

Il labetalolo, un bloccante dei recettori alfa e beta, viene raccomandato sia come monoterapia che in associazione con altri farmaci, quali i diuretici ed i vasodilatatori diretti.

Con un dosaggio di 200-1000 mg die (suddiviso in due somministrazioni) il labetalolo fornisce un adeguato controllo pressorio nell’arco delle 24 ore.

Contrariamente agli altri beta-bloccanti, il labetalolo è risultato efficace anche negli afro-americani e nei soggetti anziani.

Gli effetti collaterali sono simili a quelli dei beta-bloccanti; ad alte dosi, possono comparire gli effetti collaterali tipici degli alfa-bloccanti, come l’ipotensione ortostatica o la congestione della mucosa nasale.

Antiadrenergici ad azione centrale

Gli antiadrenergici ad azione centrale (alfa-agonisti centrali) diminuiscono la pressione arteriosa sistemica inibendo l’attività simpatica a livello del sistema cardiovascolare.

Fanno parte di questa classe la metildopa, la clonidina, la guanfacina ed il guanabez; tutti questi farmaci presentano gli stessi effetti emodinamici, terapeutici e i medesimi effetti collaterali.

L’azione antiipertensiva si accompagna ad una modesta riduzione della frequenza cardiaca e della portata cardiaca.

Vengono normalmente utilizzati per il trattamento dell’ipertensione non complicata, in monoterapia o in associazione ad altri farmaci, come i diuretici.

Gli effetti collaterali riflettono la loro azione centrale e comprendono sedazione, secchezza delle fauci, riduzione della vigilanza e disfunzione sessuale.

L’improvvisa interruzione del trattamento (specie con la clonidina) può causare crisi ipertensive come fenomeno di rebound.

La terapia con metildopa è stata associata alla comparsa di fenomeni autoimmuni.

Calcio-antagonisti

I calcio-antagonisti sono farmaci ampiamente utilizzati nel trattamento dell’ipertensione arteriosa e di altre patologie cardiovascolari, quali la cardiopatia ischemica. Tutti i calcio-antagonisti riducono le resistenze vascolari periferiche e sono quindi in grado di ridurre la PAS e la PAD nei pazienti con ipertensione arteriosa.

Questi farmaci tuttavia differiscono ampiamente tra loro per struttura chimica e per effetti cardiovascolari.

In generale le diidropiridine sono più efficaci nel trattamento dell’ipertensione rispetto al verapamil o al diltiazem. Le diidropiridine a breve durata di azione (come la nifedipina in capsule) determinano una rapida diminuzione dei valori pressori con tachicardia riflessa e dovrebbero essere evitate nell’ipertensione cronica.

Le formulazioni di nifedipina o di altre diidropiridine a lunga durata d’azione o a rilascio prolungato come l’amlodipina e la felodipina causano meno frequentemente tachicardia e stimolazione riflessa del sistema simpatico.

Il verapamil ed il diltiazem possono determinare una modesta riduzione della frequenza cardiaca I calcio-antagonisti vengono utilizzati in tutti i tipi di ipertensione ed offrono numerosi vantaggi nei pazienti con malattie cardiovascolari. Possono essere utilizzati in monoterapia od in associazione ai beta-bloccanti ed agli ACE-inibitori.

Contrariamente ad altri farmaci e per ragioni non completamente note, la loro azione non è potenziata dalla restrizione sodica o dall’uso dei diuretici.

Uno studio ha suggerito che i calcio-antagonisti diidropiridinici determinano una riduzione della morbilità e mortalità cardiovascolare nella popolazione anziana ipertesa.

Sebbene l’attività di questi farmaci sia ormai ben documentata, essi sono particolarmente efficaci nei soggetti afro-americani ed in quelli con ipertensione volume dipendente o con bassa renina plasmatica.

Uno dei più importanti effetti collaterali dei diidropiridinici a breve durata di azione è la rapida comparsa dell’effetto associato ad un incremento riflesso della frequenza e della portata cardiaca; inoltre è possibile l’insorgenza di cefalea e flushing.

La contemporanea somministrazione di un betabloccante può attenuare questi effetti “vasodilatatori”.

Sono stati anche segnalati alcuni casi di iperplasia gengivale.

Tutti i calcio antagonisti possono determinare edemi declivi; essi sono legati ad un fenomeno idrostatico locale e non rispondono alla terapia diuretica.

Il verapamil ed il diltiazem non causano effetti collaterali “vasodilatatori”. Il verapamil può determinare stipsi. Sia il verapamil che il diltiazem possono accentuare disturbi della conduzione atrio-ventricolare preesistenti e presentano un effetto inotropo negativo nei pazienti con insufficienza cardiaca.

Inibitori dell’enzima di conversione (ACE-inibitori )

Gli inibitori dell’enzima di conversione bloccano l’attività dell’ACE, enzima deputato alla conversione dell’angiotensina I (inattiva) in angiotensina Il, potente sostanza ormonale vasocostrittrice.

Vi sono molti ACE-inibitori disponibili in commercio (ad es., captopril, enalapril, quinapril, etc.) e tutti sono ugualmente efficaci nel trattamento dell’ipertensione. Le diverse proprietà farmacologiche sono correlate alla durata di azione, al legame tissutale, all’organo sede del metabolismo e alla via di eliminazione.

Oltre a ridurre la generazione di angiotensina, gli ACE-inibitori potenziano le azioni delle bradichinine. Il significato clinico di questo effetto secondario non è completamente noto, tuttavia è alla base dell’effetto indesiderato più comune degli ACE-inibitori: la tossetta secca e stizzosa.

Gli inibitori dell’enzima di conversione sono estremamente utili nel trattamento dell’ipertensione di qualsiasi grado. Sebbene la risposta terapeutica sia superiore nei pazienti con alta renina plasmatica, non è necessario conoscere il profilo reninico per impostare un trattamento personalizzato.

Se con il solo ACE-inibitore non si ottiene un adeguato controllo pressorio, va valutata l’opportunità di aggiungere un diuretico. Questa associazione è particolarmente utile nei pazienti con bassa renina plasmatica, quali gli Afro-americani e gli anziani.

Nei pazienti con segni di ipovolemia gli ACE-inibitori dovrebbero essere utilizzati con estrema cautela e a basse dosi, o non prescritti affatto, al fine di evitare una caduta eccessiva della pressione arteriosa.

Questa classe di farmaci presenta particolari vantaggi nei pazienti con insufficienza cardiaca congestizia (o con frazione di eiezione ridotta), nefropatia diabetica ed altre patologie renali.

Numerosi studi hanno dimostrato una riduzione di morbilità e mortalità nei pazienti con scompenso cardiaco in trattamento con ACE-inibitore. Inoltre, essi prevengono la progressione della nefropatia diabetica.

Per questi motivi, gli ACE-inibitori rappresentano la terapia di scelta nei pazienti con ipertensione arteriosa ed insufficienza cardiaca congestizia o nefropatia diabetica (tranne nei casi in cui la malattia sia in uno stadio avanzato).

Nell’ipertensione non complicata, questi farmaci possono essere usati come monoterapia o in associazione ad altri composti, in particolare i diuretici.

L’incidenza degli effetti collaterali riportata in letteratura, differisce in base al composto considerato, ma in generale risulta simile.

Nei pazienti con insufficienza renale o in coloro che assumono diuretici risparmiatori di potassio o supplementi di potassio è frequente la comparsa di un’iperkaliemia, secondaria alla loro azione inibente sulla secrezione di aldosterone.

Nei pazienti con malattia nefrovascolare si può verificare un deterioramento acuto della funzione renale.

L’ effetto collaterale più frequente è la tosse secca, non produttiva, che può comparire in qualsiasi momento del trattamento. L’edema angioneurotico è un raro ma pericoloso effetto collaterale di questi farmaci. Sia la tosse che l’edema angioneurotico sono correlati all’azione degli ACE-inibitori sulle bradichinine. Altri rari effetti collaterali sono l’ageusia (perdita del gusto), i rash cutanei e la leucopenia.

Gli ACE-inibitori sono controindicati in gravidanza a causa di una potenziale fetotossicità.

Bloccanti dei recettori per l’angiotensina II

I bloccanti dei recettori per l’angiotensina II (ARB) sono una nuova classe di farmaci per il trattamento dell’ipertensione arteriosa. Come è possibile dedurre dal loro nome, gli ARB bloccano l’angiotensina II, determinando una riduzione delle resistenze vascolari periferiche e della pressione arteriosa. Inoltre questi farmaci promuovono l’escrezione di sodio, riducendo la secrezione di aldostcrone.

Questo duplice meccanismo rende ragione della loro efficacia antiipertensiva e dei loro vantaggi.

Tutti gli ARB presentano effetti simili, ma differiscono per durata di azione, legame recettoriale e farmacocinetica (emivita e volume di distribuzione).

Analogamente agli ACE-inibitori, gli ARB possono essere usati in monoterapia o in associazione ai diuretici.

I più recenti preparati a lunga durata di azione permettono la monosomministrazione giornaliera.

Gli ARB, così come gli ACE-inibitori, offrono particolari benefici nei pazienti con insufficienza cardiaca congestizia e nefropatia diabetica.

I principali vantaggi degli ARB derivano dal loro meccanismo di azione, che rende meno probabile la comparsa di tosse o edema angioneurotico. Sono farmaci ben tollerati e con una bassa incidenza di effetti collaterali.

Sebbene gli ACE-inibitori e gli ARE abbiano azioni sinergiche e cumulative, non vi sono dati sulla sicurezza di una tale associazione, anche se recentemente è stato dimostrato un effetto sinergico negativo sulla funzione renale.

Ipertensione arteriosa resistente alla terapia

In generale l’ipertensione arteriosa viene definita resistente o refrattaria alla terapia quando non è possibile ottenere la normalizzazione dei valori pressori nonostante l’associazione di almeno tre farmaci utilizzati a dosi adeguate, in un soggetto con ottima compliance al trattamento.

Questi pazienti dovrebbero esser sottoposti ad una valutazione clinica per la ricerca di cause secondarie di ipertensione, quali l’ipertensione nefrovascolare (RVH), il feocromocitoma, l’iperaldosteronismo primario e le malattie renali.

I pazienti con ipertensione refrattaria devono essere controllati frequentemente; La restrizione sodica e la riduzione della volemia sono fattori estremamente importanti nel trattamento di queste forme.

Ipertensione arteriosa secondaria

L’ipertensione secondaria è molto meno frequente rispetto all’ipertensione essenziale: solamente il 5% dei casi di ipertensione arteriosa, ma il riconoscimento delle cause è di estrema importanza per la prognosi ed il trattamento del singolo paziente.

Le forme più comuni di ipertensione secondaria sono quelle nefrovascolari e corticosurrenali (feocromocitoma e iperaldosteronismo primario o Sindrome di Conn).

Vista la sua bassa incidenza e dato l’alto costo dell’iter diagnostico, vi è stato un ampio dibattito sull’atteggiamento più o meno aggressivo che i medici dovrebbero assumere nella ricerca eziologica. Un’anamnesi accurata, l’esame obiettivo ed una rapida valutazione strumentale sono spesso sufficienti ad indirizzarci verso ulteriori approfondimenti diagnostici.

Le malattie renali parenchimali e l’ipertensione nefrovascolare sono due frequenti cause di ipertensione secondaria; l’iperaldosteronismo primario ed il feocromocitoma rappresentano cause importanti, ma rare.

Malattie renali parenchimali

L’ipertensione arteriosa è frequente nei pazienti con malattie renale. Nell’insufficienza renale acuta, la causa principale risiede nell’espansione del volume extracellulare, perciò la riduzione della volemia in genere normalizza i valori pressori e l’ipertensione migliora o scompare con il recupero della funzione renale. Poiché in questi casi l’incremento della pressione arteriosa è un fenomeno transitorio, la terapia ha lo scopo di evitare le sue complicanze.

L’ipertensione arteriosa è ugualmente frequente nei pazienti con malattia renale cronica; rispetto all’ipertensione essenziale, ha una maggiore tendenza alla progressione verso forme accelerate o maligne, per qualsiasi livello di valori iniziali.

Le patologie renali rappresentano un fattore di rischio per gli eventi cardiovascolari, l’ipertrofia cardiaca e per l’ulteriore progressione della patologia renale: perciò in questi casi il trattamento antiipertensivo deve essere aggressivo.

La strategia terapeutica generale non differisce significativamente da quella dell’ipertensione essenziale; tuttavia poiché queste forme sono caratterizzate da un incremento della volemia, la terapia diuretica ha un ruolo di estrema importanza.

Quasi tutti i pazienti che presentano una malattia renale in fase avanzata, hanno elevati valori pressori ed è stato dimostrato che un accurato controllo della pressione arteriosa ritarda significativamente la progressione della malattia renale.

Ipertensione nefrovascolare (RVH)

L’ipertensione nefrovascolare è una delle più comuni cause di ipertensione secondaria ed è potenzialmente correggibile. E’ causata da una ischemia renale secondaria ad una stenosi dell’arteria renale, tuttavia, la presenza di un’ostruzione dell’arteria renale (evidenziata, per esempio, all’arteriografia) non presuppone automaticamente la diagnosi di RVH.

Nella pratica clinica la diagnosi di RVH può essere effettuata solo retrospettivamente, quando assistiamo al miglioramento o alla scomparsa di una ipertensione, in seguito alla correzione chirurgica di una lesione ostruttiva dell’arteria renale: alcuni pazienti infatti potrebbero semplicemente avere una ipertensione concomitante.

La reale incidenza di questa patologia è sconosciuta, tuttavia una stima ragionevole indica che la RVH rappresenta l’ 1-2% di tutte le forme ipertensive. In popolazioni selezionate, specialmente se costituite da pazienti anziani o da soggetti con retinopatia ipertensiva di grado 3 o 4, la sua prevalenza è molto superiore.

Nei pazienti con RVH, l’incremento dei valori pressori è inizialmente legato all’attivazione del sistema renina-angiotensina. L’ischemia renale induce la liberazione di renina da parte delle cellule iuxta-glomerulari; la renina determina la conversione dell’angiotensinogeno in angiotensina I che a sua volta viene trasformato dagli ACE in angiotensina Il. Quest’ultima è un potente vasocostrittore e stimola la secrezione di aldosterone, con conseguente ritenzione idrosalina. La vasocostrizione e l’incremento della volemia causano una ipertensione stabile.

La più importante causa di RVH è la malattia aterosclerotica dell’arteria renale, seguita dalla displasia fibromuscolare; quest’ultima in genere è più frequente nei soggetti giovani, specie se di sesso femminile, in un’età compresa tra i 20 ed i 30 anni. Le lesioni aterosclerotiche, invece, colpiscono soggetti più anziani, con un rapporto approssimativo tra il sesso maschile e quello femminile di 2:1. Le placche aterosclerotiche coinvolgono frequentemente l’ostio dell’arteria renale e costituiscono una un’estensione del processo aterosclerotico aortico. Le lesioni sono bilaterali in 1/3 dei casi.

Il consumo di tabacco è associato ad una maggiore prevalenza sia della displasia fibromuscolare che della malattia aterosclerotica.

Sebbene la presenza di una stenosi dell’arteria renale non significhi automaticamente RVH, questa è certamente una condizione indispensabile per la diagnosi e deve essere sempre ricercata.

Attualmente la pielografia endovenosa, il dosaggio della renina circolante o il dosaggio selettivo della renina nel sangue refluo dalle vene renali vengono raramente utilizzati per la diagnosi di RVH ed il gold standard diagnostico rimane l’angiografia renale. Questa è comunque una procedura invasiva, con rischi e costi significativi.

Gli esami diagnostici recentemente introdotti comprendono la scintigrafia con captopril, l’angiografia a sottrazione digitale venosa o intra-arteriosa, l’esame eco-doppler e la risonanza magnetica con angiografia.

L’angiografia digitale a sottrazione di immagini utilizza una considerevole quantità di mezzo di contrasto, ma evita la puntura di un vaso arterioso. Purtroppo la lettura delle immagini è fortemente ostacolata dalla presenza di gas intestinali o nei pazienti obesi.

L’esame eco-doppler è il test di screening meno costoso; tra i suoi svantaggi va comunque ricordata la sua stretta dipendenza dall’abilità dell’operatore.

La risonanza magnetica con angiografia è una delle tecniche emergenti, anche se vi sono ancora pochi studi sul suo utilizzo; le esperienze preliminari sono tuttavia incoraggianti.

La scintigrafia renale è stata ampiamente utilizzata in passato come indagine di screening, ma questo test può non essere in grado di evidenziare le lesioni bilaterali. La scintigrafia renale con captopril è una tecnica più sensibile. Questo test si basa sull’assunto che nella RVH la velocità di filtrazione glomerulare ed il flusso renale dipendono dalla vasocostrizione dell’arteriola efferente indotta dall’angiotensina II. Con la somministrazione acuta del captopril, che è un ACE-inibitore, si indurrebbe una ischemia renale, rilevabile con questo tecnica. Questo è uno dei più utili test di screening non invasivi per la RVH. Uno degli svantaggi è che i pazienti devono interrompere la terapia cronica con gli ACE-inibitori molti giorni prima dell’esame. L’accuratezza di questo test è ridotta nelle malattie renali parenchimali.

Il trattamento della RVH è tuttora oggetto di un ampio dibattito. Alcuni continuano ad essere favorevoli alla terapia medica anche se questa non è sempre in grado di assicurare un adeguato controllo pressorio; inoltre, anche in presenza di una normalizzazione della pressione arteriosa, la funzione renale tende a deteriorarsi.

La terapia chirurgica, l’angioplastica endoluminale percutanea o lo stent dell’arteria renale sono terapie risolutive, anche se la correzione chirurgica della stenosi dell’arteria renale è la tecnica che assicura i migliori risultati. Viene raccomandata nei casi di grave ostruzione aterosclerotica ostiale bilaterale.

L’angioplastica, se effettuata da operatori esperti, ottiene ottimi risultati, specie nella fibrodisplasia muscolare, mentre presenta molti problemi tecnici nelle lesioni aterosclerotiche. L’incidenza delle restenosi è di circa il 20%, ma può raggiungere valori superiori nella malattia aterosclerotica.

L’avvento di procedure di stenting più sofisticate ha nettamente migliorato i risultati dell’angioplastica e questa tecnica risulta praticamente equivalente alla correzione chirurgica per il trattamento definitivo della RVH.

Altre forme più rare di ipertensione secondaria sono il Feocromocitoma e l’ Iperaldosteronismo primario o Sindrome di Conn.